Ritratti. «Il mio sogno di scienziata? Sconfiggere i tumori big-killers»
La neo direttrice scientifica di Airc Anna Mondino
Dallo sport ha imparato una sana competitività, dalla sua Torino il rigore, dagli Stati Uniti l’esaltazione del merito, dalla maternità la bellezza di essere donna. Anna Mondino ha uno sguardo luminoso, un sorriso sincero e prende con allegria il suo nuovo ruolo di direttrice scientifica di Fondazione Airc, il colosso della ricerca contro il cancro, il primo polo di finanziamento con i suoi 6mila scienziati (il 62% donne, 49% sotto i 40 anni) sparsi in oltre cento istituzioni, i 4,5 milioni di sostenitori e i 143 milioni di euro messi a disposizione nel 2024 per 695 progetti di ricerca, 93 borse di studio, 15 programmi speciali.
Una responsabilità da far tremare i polsi a molti – valutare con il solo criterio dell’eccellenza e del merito a quali ricercatori affidare il denaro raccolto dagli italiani – ma non a lei. Biologa e immunologa, dopo la laurea e la specializzazione a Torino, ha lavorato per 7 anni a New York e Minneapolis fino a tornare in Italia dove nei laboratori del San Raffaele di Milano ha messo sotto la lente i linfociti T, per attivare una risposta immunitaria contro i tumori. In soldoni: l’idea è modificarli geneticamente in modo da renderli in grado di riconoscere le cellule neoplastiche dei pazienti e indurne il rigetto. L’immunoterapia dei tumori oggi è diventata l’approccio più promettente contro il cancro. Airc (domenica 17 novembre si chiudono i Giorni della ricerca, con la partita della Nazionale contro la Francia al Meazza di Milano a sostegno dell’iniziativa), del resto, è nel destino di Anna Mondino: ne condivide l’anno di nascita (per la cronaca: 1965) e il finanziamento ricevuto dalla Fondazione per le sue ricerche è stato il passaporto per tornare in Italia dopo gli anni americani e avviare un laboratorio che ha accolto oltre 50 ricercatori.
Dottoressa Mondino, lei è la prima di cinque figli, quattro femmine e un maschio, il penultimo. Per caso era anche la prima della classe?
No! Andavo bene a scuola, ma non ero necessariamente la migliore, né mi sono mai sentita la prima della classe. Forse un po' per passione e un po' per emulare un papà molto sportivo, casomai dove ho cercato di eccellere è stato nello sport. Non ci sono riuscita, ma da lì è emersa la mia anima competitiva.
Da piccola cosa voleva fare?
Non avevo le idee chiare, ma alla biologia e in particolare alla ricerca mi hanno ispirato due libri. Il primo, regalato da mia madre, è “Cacciatori di microbi”, un saggio di divulgazione scientifica del batteriologo statunitense Paul de Kruif, scritto nel 1926, in cui si descrivono le vite di 11 scienziati. E il secondo è “L’Anello di re Salomone” di Konrad Lorenz, con le sue scoperte legate all’osservazione degli animali…
Ha sempre pensato, da femmina, di poter fare tutto nella vita?
No, non ho mai pensato di poter far tutto, ma ho sempre creduto che non ci sia un tetto a ciò che si può fare, e che se uno si impegna abbastanza i risultati prima o poi arrivano.
Lei ha due figli: ha mai desiderato avere una famiglia numerosa come quella in cui è cresciuta?
La famiglia numerosa è stata importantissima, una palestra nella quale capire che i problemi si affrontano e si risolvono. Ma quando siamo tornati in Italia dagli Stati Uniti la mia seconda figlia aveva un anno, con il New Unit Start up Grant dell’Airc dovevo avviare un laboratorio al San Raffaele e mio marito era sempre un viaggio… Ho pensato che con due bambini e due braccia ce la potevo fare, di più no. Oggi penso che con un terzo figlio me la sarei cavata: è un piccolo rimpianto.
Ne parla con le sue giovani ricercatrici?
A loro dico che non c’è mai un “momento buono” per avere un figlio e che in realtà tutti i momenti sono buoni. Se si è sufficientemente motivati e si trovano le risorse per potersi organizzare si può fare tutto. Ma questo potrebbe essere una lunga chiacchierata. Importante è che i papà scendano in campo. Il sostegno di mio marito è stato importantissimo. Tra le mie future priorità mi sono ripromessa di capire come guardare alla progettualità delle giovani famiglie e alle loro difficoltà.
Ha vissuto e lavorato nei laboratori di tante città del mondo, ci regali poche parole per descrivere cosa ha significato ciascuna di esse per lei. Iniziamo con Torino.
Le mie radici, città meravigliosa, storia e cultura profonde.
New York.
L’approdo, la possibilità di reinventarsi, la capacità di mettersi alla prova. Laboratorio competitivo, molto duro, impatto culturale grande, opportunità enorme di interfacciarmi con il mondo. Negli Usa ti insegnano che se non parli nessuno ti vede, e lì ho imparato a tirar fuori quel che avevo da dire.
Minneapolis.
Un buon compromesso tra quel che avevo lasciato a Torino e quel che avevo trovato a New York. L'opportunità di crescere.
Milano?
La voglia di restituire al mio Paese quello che il mio Paese mi ha dato.
Ogni passaggio è stato deciso insieme a suo marito. Chi dei due ha rinunciato di più?
Nessuna rinuncia, tanti compromessi. E con qualche sacrificio reciproco siamo riusciti a perseguire ciascuno i propri sogni professionali.
Una bella intesa…
Bellissima. Io e mio marito ci siamo conosciuti in laboratorio, all’università. Ci siamo sposati nell’arco di due anni, nel 1991, perché lui aveva ricevuto una proposta negli Stati Uniti, mi aveva chiesto di seguirlo e io gli ho risposto: sì, ma a patto che mi sposi. Le basi di un progetto di vita comune.
Che mamma è stata?
Presente nei momenti giusti, assente in altri. Ho sempre pensato di non essere brava come la mia mamma o la mia nonna, entrambe professioniste della famiglia. Sono stata una mamma del compromesso e del continuo senso di colpa. Alle mie ricercatrici giovani dico: imparate a convivere con i sensi di colpa senza farvene schiacciare.
Le piace lavorare con le donne? Nel suo laboratorio le ricercatrici sono la maggioranza…
Sì, è vero, ma penso che avere un laboratorio misto sia molto importante. Dal mio osservatorio ho imparato che gli uomini sono più istintivi e capaci di buttare il cuore oltre l’ostacolo, le donne sono più portate a guardare il quadro complessivo e resilienti. Avere uomini e donne intorno allo stesso tavolo consente di avere quel giusto bilanciamento tra innovazione e attenzione al bene comune.
Essere donna ha influito nella sua carriera?
Per molto tempo ho pensato che se avessi potuto scegliere avrei preferito nascere uomo, perché mi sembrava che gli uomini avessero più libertà e più facilità di accesso a molte cose. Poi ho cambiato idea, per due motivi.
Il primo?
Diventare mamma mi ha permesso di capire che mai nella vita vorrei essere uomo perché quello che ho vissuto non lo cederei a nessuno.
Il secondo?
Avendo l’opportunità di lavorare in ambienti professionali che danno la possibilità di esprimersi penso che la sensibilità e la capacità di guardarsi intorno a 360 gradi, caratteristiche tipicamente femminili, diano l'opportunità di costruire ambienti di lavoro più bilanciati.
Da settembre lei è la direttrice scientifica di Airc, subentrando dopo nove anni a Federico Caligaris Cappio: che volto pensa di far assumere alla Fondazione?
Vorrei aumentare il supporto ai giovani, proseguendo con i finanziamenti “bottom-up”, come le borse di studio per start up, il Sud e i giovani medici che permettono di identificare talenti capaci di esprimere nuove progettualità e creando un sistema di mentoring. Un altro mio proposito è quello di trovare nuove strategie per trasferire sempre di più i risultati della ricerca al letto del malato.
C’è un tipo di cancro che le piacerebbe vedere sconfitto?
Le grandi sfide sono il carcinoma del colon e il carcinoma del pancreas, che sono tra i big killers. La bellezza di Airc è che la grande platea di 6mila ricercatori pur lavorando su tematiche diverse è animata da due sogni comuni: capire i meccanismi della malattia e quindi studiare la strategia per interferire nella sua trasmissione.
Sente la responsabilità del suo lavoro?
Sento la responsabilità di usare in modo consapevole ogni euro che ci viene donato dai cittadini. Sento l’urgenza di trovare qualcosa di utile, e la consapevolezza che lo possiamo fare perché qualcuno si è privato di qualcosa per darlo a noi.
Cos’è il tumore per lei?
È un avversario. È una opportunità per farsi domande. È una malattia con la quale ci si può interfacciare, ma che bisogna accettare.
Anna Mondino - Ufficio stampa Airc
Dottoressa Mondino, tra dieci anni dove si vede?
Mi piacerebbe vedere una Airc proiettata nel futuro e che i progetti che stanno emergendo diventino terapia.
Nella sua vita così affollata c’è spazio anche per la spiritualità?
Sì. Sono cattolica, e credo la fede faccia parte della mia vita di ricerca. Anche in questo campo talvolta raggiungo compromessi. Una volta ho confessato alla mia mamma di non aver sempre tempo per andare a Messa. E lei nella sua saggezza mi ha risposto: non ti preoccupare, Lui è lì che ti aspetta.