Opinioni

Salute del mare. Il Mediterraneo da salvare. Per i popoli e per l'ambiente

Daniele Zappalà venerdì 2 agosto 2019

Il mare in una stanza e una stanza grande come un mare. Non è solo un gioco di parole ispirato da un celebre brano musicale degli anni Sessanta. Ma è pure quanto l’attualità continua a suggerire a proposito della scomodissima sfida di un futuro sostenibile per il Mediterraneo. Non sono poche le stanze in cui è recentemente entrato il 'mare fra terre', soprattutto grazie ad eventi di sensibilizzazione sugli sfregi che continua a subire l’unico pelago chiuso su cui si affaccino ben tre continenti.

In Francia, ad esempio, resta nella memoria la mostra The Middle Earth, attorno al 'progetto mediterraneo' degli artisti Maria Thereza Alves, brasiliana, e Jimmie Durham, statunitense, entrambi trapiantati in Europa. Un’esposizione, ospitata l’anno scorso nella conurbazione di Lione, fondata sull’idea di condensare in poche sale la fantasmagoria simbolica che lungo i millenni ha nutrito il mito del Mediterraneo, fucina di cosmogonie e culla di civiltà. L’ultima stanza mostrava ciò che il Mediterraneo rischia oggi di diventare: una discarica acquatica di rifiuti e veleni a cielo aperto, fra bottiglie di plastica, linguette d’alluminio, rottami di barconi memori delle drammatiche traversate dei rifugiati da guerre e carestie. Gli scarti dei consumi accanto all’umanità consumata e spesso anch’essa scartata.

Più di recente, è stato allestito sulla scena di Chaillot, il grande teatro parigino dirimpettaio della Tour Eiffel, lo spettacolo di danza Franchir la nuit (varcare la notte), del coreografo francese Rachid Ouramdane, di ascendenza algerina, con il palcoscenico trasformato in Mediterraneo in miniatura, fra onde d’acqua ben reali. In scena, accanto a degli scolari francesi e a qualche ballerino professionista, pure e soprattutto dei giovani esuli che hanno rischiato davvero la vita attraversando il Mediterraneo: al contempo, dunque, un concentrato di poesia e uno schiaffo simbolico a quella Francia e a quell’Europa che vorrebbero chiudersi come un fortino assediato. Un’opera, fra l’altro, che anche il pubblico italiano potrà apprezzare a luglio, al festival Bolzano Danza, nella sezione Outdoor curata proprio da Ouramdane.

A ben guardare, continuano a crescere i tentativi, anche modesti, di far entrare il Mediterraneo in una stanza, come in tutte quelle classi scolastiche dove si discutono le odissee mediterranee vecchie e nuove. Leggendo direttamente i giornali, o magari dando una coloritura d’attualità a versi struggenti come quelli che il Foscolo dedicò alla natia Zacinto, odierna Zante. Ma al contempo, pian piano, si avvista talvolta nuovamente pure un possibile orizzonte ideale di tutti questi tentativi. Quello di tornare faticosamente a immaginare l’identità di un Mediterraneo come grande stanza condivisa dai popoli che lo abitano. Una stanza in cui innanzitutto ela- borare progetti comuni, a livello politico, sociale, culturale, economico, ecologico. Dunque, qualcosa di molto diverso da un 'Mediterraneo frontiera', sempre retoricamente comodissimo per dissimularvi le odierne difficoltà nel gestire certe sfide cruciali del nostro tempo, come il co-sviluppo dei diversi continenti e la lotta al cambiamento climatico. È un’altra cosa, pure, rispetto a un Mediterraneo inteso quasi esclusivamente come crocevia strategico di ciclopici flussi commerciali di superficie e di condotti sottomarini di ogni tipo.

Già nel 1986, invece, ricevendo una laurea honoris causa a Palermo, il poeta e statista senegalese Léopold Sédar Sen- ghor aveva esaltato la qualità del Mediterraneo come vivaio di quei 'laboratori antropologici' dove il genere umano forgia il suo sentire e il suo saper essere, grazie alla condizione favorevole dell’incontro di sensibilità, visioni, accenti diversi. A prima vista, di fronte alle tragedie quotidiane di cui il Mediterraneo è teatro, una simile concezione potrebbe apparire oggi persino utopica. Ma alla lunga, quando molte sfide salienti accomunano popoli diversi, come per definizione nell’universo mediterraneo, è invece il disfattismo a trasformarsi in cecità e irrealismo. In un mare così densamente abitato e intensamente vissuto, l’unico futuro sostenibile potrebbe essere proprio l’infittirsi di una rete coerente di legami e segni 'affettivi', come direbbe il geografo e filosofo sino-americano Yi-Fu Tuan. Slanci condivisi d’attenzione, incontro, mutuo riconoscimento.

Anche in questo senso, tanti spunti d’attualità potrebbero nutrire la riflessione, come l’avvistamento, il 21 maggio, di un colossale ammasso galleggiante di plastica fra l’Isola d’Elba e la Corsica. È composto, lungo alcune decine di chilometri, da diverse migliaia di tonnellate di detriti alla deriva, raggruppati dal gioco delle correnti. Secondo gli esperti, non diventerà un agglomerato permanente come certe isole di plastica dell’Atlantico e del Pacifico. La sua graduale dispersione giungerà probabilmente nel volgere di un trimestre al massimo. Ma la semplice constatazione che a ricongiungersi nel Mediterraneo sono vieppiù i rifiuti riversati dai fiumi di ogni contrada, al posto dei gruppi di cetacei, la dice lunga sui livelli di pressione raggiunti dall’inquinamento nel mare fra terre.

Eppure, unendo gli sforzi, anche gli ammassi di plastica più inquietanti potrebbero essere sconfitti. Lo scorso 16 maggio, durante il salone Viva Technology di Parigi, hanno cercato di dimostrarlo pure i ricercatori e progettisti del concorso 'Zero rifiuti di plastica nel Mediterraneo entro il 2030', che ha registrato 60 proposte provenienti da 11 Paesi. Fra le soluzioni premiate, figura ad esempio l’applicazione libanese per smartphone battezzata Live-LoveRecycle, che ha già permesso di dare lavoro a 420 persone in stato di vulnerabi-lità, favorendo la raccolta di decine di tonnellate di rifiuti riciclabili a Beirut. Ha fatto sensazione pure Jellyfishbot, un piccolo 'robot medusa' di concezione francese capace di ripulire rapidamente la superficie marina dalla plastica e dalle chiazze d’idrocarburi, soprattutto nei perimetri portuali. Fra gli altri progetti presentati, pure quelli volti a sostituire le materie plastiche con biomateriali raccolti su scala locale.

Intanto, anche il cambiamento climatico mostra vieppiù quanto sia miope considerare il Mediterraneo come una semplice giustapposizione di scenari separati. Una recente ricerca internazionale condotta dall’Università del Salento, accanto agli atenei di Marsiglia, Barcellona, Nicosia, Haifa e Rabat, mostra che i Paesi mediterranei hanno vissuto nell’ultimo secolo un riscaldamento climatico di 1,4 gradi, sensibilmente superiore a quello registrato in media nel resto del globo, attorno a 1 grado. Ciò ha contribuito a rendere più frequenti nubifragi e ondate di calore, divenuti anche più violenti. Secondo lo studio, nei prossimi anni il surriscaldamento nell’area continuerà a superare del 25% quello medio globale, con un divario destinato a salire al 40% nel periodo estivo. Una sfida che non ammette di certo risposte nazionali unilaterali.

Un’altra tendenza osservata nell’area dagli scienziati riguarda la crescente erosione di dune e spiagge, con un conseguente rischio maggiorato d’inondazioni lungo le coste, come sostiene uno studio condotto dai ricercatori Cnr di Oristano coordinati da Simone Simeone, presso l’Istituto per lo studio degli impatti antropici e sostenibilità in ambiente marino (Ias), in collaborazione con l’Università Cà Foscari di Venezia. Fra i fenomeni concatenati inclusi nelle simulazioni, figurano le emissioni atmosferiche di anidride carbonica, considerate come principale causa scatenante, e l’acidificazione del mare. Anche solo per comprendere e cominciare ad affrontare simili difficoltà, converrà sempre più coordinare gli sforzi, stringere nuovi legami, avvicinare città, studiosi, associazioni, volontari di coste diverse. Saper guardare insomma l’unica stanza, oltre ogni presunta frontiera marittima.