Dialogo sulla (non inevitabile) deriva tecnico-economicistica. Ma il management non è perso. Lo salva una cultura olistica
Caro direttore,ho letto con molta attenzione e vivo interesse l’articolo del collega e amico Luigino Bruni apparso su "Avvenire" del 18 gennaio 2015, dal titolo: «Cultura manageriale: organizzazione di consumo (persone)». Condividendo molta parte delle considerazioni svolte, ritengo di dovere e poter dare un contributo per un aperto dibattito, che parte dalla mia esperienza di docente di management, in passato direttore della SDA, una delle principali scuole di management a livello europeo e forse mondiale, presidente di ASFOR (associazione delle scuole di management italiane) e componente del board di EFMD (European Foundation for Management Developement). Quindi, potrei dire, persona informata sui fatti.Anche io vedo il rischio che «la cultura di management diventi una vera e propria ideologia globale», ma, per non correre il rischio contrario di delegittimare completamente questa cultura, occorre fare due precisazioni. In primo luogo, esistono ancora, per fortuna, molti docenti di management e molti manager, in Italia e all’estero, che credono veramente nei «registri simbolici e motivazionali» e non li usano solo strumentalmente. Non so quanti siano, probabilmente o quasi sicuramente una componente minoritaria, ma a mio parere sufficiente per far leva sulle "crepe" ed evitare che si arrivi all’«implosione dell’edificio».In secondo luogo, se è condivisibile l’analisi secondo cui la «terra» delle imprese «ha un cielo troppo basso» e un «orizzonte troppo angusto», è pur vero che la società moderna deve affrontare aspetti di complessità e di incertezza non paragonabili alla realtà di comunità delle prime botteghe artigiane e delle imprese familiari, ricordate da Bruni. La cultura di management è necessaria, insieme ad altre componenti di una cultura che dovrebbe essere olistica (con linguaggio antropologico e filosofico) e sistemica (con linguaggio manageriale), per governare la complessità e l’incertezza della società odierna, per orientarla verso il miglioramento della condizione umana. Il condizionale è d’obbligo, poiché, concordo con Luigino Bruni, si sta imponendo decisamente la concezione di management come «tecnica libera da valori». Per altro, questa impostazione, definita come managerialismo scientifico, si colloca nel più generale filone di economia della rational choice, dell’illuminismo, del positivismo, del naturalismo scientifico che ritengono di spiegare tutto.Il predominio di questa corrente di pensiero è stato favorito da una distorta applicazione dei princìpi di divisione e specializzazione del lavoro, delle funzioni economiche (imprese che producono, famiglie e pubbliche amministrazioni che impiegano la ricchezza prodotta, risparmiatori-investitori che alimentano il ciclo della produttività), del mercato inteso soprattutto in termini di competizione win-lose (qualcuno migliora e qualcuno peggiora) e non in termini di win-win (tutti possono migliorare se sono disposti anche a collaborare). Un predominio che è stato veicolato dal ruolo leader degli Stati Uniti nell’economia occidentale prima, e in particolare nell’economia globalizzata dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica. La cultura manageriale dominante si fonda su una antropologia del talento individuale che si collega a concezioni antiche di homo faber fortunae suae e di "ascensore sociale" consentito dalla mano invisibile del mercato. Una concezione molto distante da quella del management inserito nella concezione aziendale italiana (centro europea), che definisce l’impresa come istituto economico-sociale. In essa, l’economia non è separabile dalla società, i risultati economici non possono essere valutati separatamente dall’impatto sulle relazioni sociali, la vita nelle imprese, nelle amministrazioni pubbliche, nelle organizzazioni non profit è considerata una parte importante ma non assoluta della vita delle persone.Purtroppo, la ricerca della omologazione e del conformismo che sembra essere imposta dalla forza della globalizzazione, come sostiene Henry Mintzberg nel suo recente libro Simply Managing ha fatto perdere l’essenza del «lavoro manageriale» che deve essere un cocktail di scienza (razionalità), arte (creatività e innovazione), tecnica (che secondo Mintzberg è l’insieme di conoscenze che si acquisiscono all’università e nelle scuole di management, ma che si affinano e si completano necessariamente con l’esperienza di vita vissuta).Uno dei colleghi bocconiani ai quali avevo inviato l’articolo di "Avvenire" mi ha detto testualmente: «Forse io e te, e pochi altri colleghi, condividiamo l’analisi e l’allarme di Luigino Bruni, ma mi sto convincendo che la Bocconi è diventata o sta diventando sempre più organica alla logica del management assurto a ideologia (e religione)». In quel momento mi sono venuti in mente almeno trenta o quaranta colleghi che non sono organici a questa cultura dominante, e sicuramente ve ne sono altre decine, ma sono anche io convinto che negli ultimi dieci/quindici anni in Bocconi vi è stata una specie di "mutazione genetica" che sintetizzo nei seguenti termini. Mentre in precedenza il reclutamento e la promozione dei docenti/ricercatori avveniva valutando le persone, seppur con tutti i difetti e i limiti di un sistema che qualcuno oggi giudica condizionato da "logica domestica" e/o di "piccole parrocchie", oggi in questi processi non si valutano più le persone, ma solo astratti indicatori bibliometrici, documenti, lettere di referee anonimi che non conoscono né le persone né tantomeno il contesto e le strategie di sviluppo. Per altro, a seconda delle persone da valutare, tra i tanti indicatori possibili si scelgono quelli che favoriscono persone che rispecchiano la cultura economica di management e di altre discipline di cui l’articolo di Bruni ha messo in evidenza i limiti, e penalizzano le persone che esprimono una cultura economica legata a problemi concreti e una cultura di management come aiuto a risolvere i reali problemi e a migliorare la società, non solo l’economia.A mio parere, questi comportamenti non hanno per nulla risolto il problema del "potere accademico" e delle "parrocchie", lo hanno solo spostato a livello di network internazionali che in molti casi non sono meno "familistici" e meno ristretti di quelli domestici. L’uso di criteri definiti "scientifici" (per me alcuni sono validi ma altri sono pseudoscientifici) e della loro interpretazione è diventato strumento per indebolire i valori della cultura economica (si pensi ad Antonio Genovesi e a Carlo Cattaneo) e aziendale/manageriale italiana e subordinarla al potere della cultura generata ed esportata dagli Stati Uniti.L’articolo di Bruni merita un’ultima considerazione: è sicuramente solido e ben articolato sul piano della critica, ma non vi ho visto indicazioni sulle possibili soluzioni. Molti opinionisti negli ultimi anni hanno costruito il loro successo e la loro notorietà sulla critica: al governo, alle inefficienze delle amministrazioni pubbliche, alla inerzia degli imprenditori, alle distorsioni del management ecc. La domanda che resta sempre senza risposta è questa: dopo la fase destruens, chi si occupa della fase construens, cioè di difendere culture economiche di management (nel caso specifico) positive o di difendere gli aspetti positivi di culture del passato? Chi, come me e come tanti altri colleghi in Bocconi e fuori, non ritiene di accettare cultura dominante per motivi etici o scientifici, deve mettersi tranquillo e accettare l’implosione del sistema o deve continuare a combattere affinché questo show down finale non arrivi, rischiando però di fare la fine dell’ultimo dei mohicani o l’ultimo dei samurai?
Facciamo un giornale intero, caro professor Borgonovi, e lo facciamo ogni giorno (tranne il lunedì, perché ci sforziamo di rispettare la domenica come «giorno di Dio e della comunità»), per contribuire alla risposta. Assieme a Luigino Bruni e a tanti altri, colleghi e collaboratori, mettiamo in circolo idee che – scelgo volutamente un’immagine umile e forte – sono come la paglia nell’antico lavoro d’impasto dei buoni mattoni. Senza paglia, senza idee, non c’è struttura, non c’è coerenza interna e non c’è costruzione salda. E invece c’è da tirar su un "sistema" altro, perché altrettanto libero ma più giusto, per gli uomini e le donne del tempo presente e di quello futuro. È fatica d’Avvenire, ed è dura e bella. Grazie per aver contribuito. (mt)