Domenico Quirico ha raccontato sulla "Stampa" una piccola parte della sua prigionia. Per due volte i sequestratori hanno finto di metterlo al muro. Uno gli ha avvicinato la pistola alla tempia. «Senti – scrive l’inviato – che l’uomo che è vicino a te respira, trasuda il piacere di avere nelle sue mani un altro uomo e di sentire che tu hai paura...». E paragona il piacere di quel nemico a quello dei bambini crudeli, che strappano per gioco le zampe agli insetti. Un uomo che tiene fra le mani la vita di un uomo, come un insetto.Il reportage di cinque mesi nelle mani di ribelli, letto in Italia, sembra provenire da un luogo infinitamente lontano, nello spazio e anche nel tempo. Ci sono queste folle immense di povera gente, vecchi, bambini, malati, che avanzano nella notte a piedi per le campagne, sotto ai razzi, lasciandosi dietro sul suolo i morti. C’è qualcosa di millenario in queste odissee di popolo, uguali a quelle di secoli fa. Come se dalla testimonianza di un occidentale dall’abisso siriano emergesse che il mondo, con tutta la nostra scienza, in verità non è cambiato molto, ed è ancora antico, atrocemente antico.«Nessuno – scrive il giornalista – ha avuto verso di me una manifestazione di quella che noi chiamiamo pietà, misericordia, compassione. Perfino i vecchi e i bambini hanno cercato di farci del male... In Siria io ho incontrato il paese del Male: dove il Male trionfa, lavora, inturgidisce».Sono parole che ci lasciano muti, noi che da quasi 70 anni non conosciamo una guerra, che abbiamo, figli e padri e padri dei padri, dimenticato cos’è, una guerra, e una guerra civile. Noi che viviamo, sì, spaventati dalla violenza e dalla cronaca nera, ma sappiamo che le nostre strade, le nostre città, sono quelle di un Paese in pace. E per quanto ci diciamo che la mancanza di pietà di cui Quirico parla è solo dei suoi sequestratori e delle frange di civili attorno, comunque questa assoluta eclisse di misericordia, anche nei vecchi, anche nei ragazzini, sgomenta. Gli uomini, siamo abituati a pensare, sono uomini ovunque, paurosi e forti o prepotenti a seconda dell’ora e del luogo, ma mai, a una data latitudine, all’unisono spietati. Ma d’altra parte della parola di Quirico non dubitiamo. Allora, a spiegare questa collettiva ferocia è la guerra, una guerra civile in cui i fratelli e i padri diventano nemici, e non c’è più alcuna memoria o ragione di bene. Quale bestia è la guerra, nella sua declinazione fratricida, Domenico Quirico lo racconta con straordinaria efficacia a noi italiani, che le guerre le vediamo solo in tv. Sarebbero, quelle pagine, da far leggere ai ragazzi, a scuola. Perché dai singoli episodi, dai gesti, dagli sguardi, si comprende dentro a quale devastante mutazione si trovi una parte del popolo siriano, oggi. Pare impossibile credere che quei giovani, quei vecchi, fossero tutti ugualmente crudeli, in tempo di pace. Sembra più credibile che una guerra tra fratelli li abbia come presi in un gorgo, e trascinati in basso, come in un pozzo di male radicale che si apre al di sotto della civiltà, della educazione, della legge, quando queste barriere negli uomini cedono. E allora nulla più vale, e non c’è più pietà. Restano solo l’avidità, il potere, i soldi; e un uomo, non vale più niente.Le parole dell’inviato tornato sono un attonito diario da questa terra del nulla. Una scarnificata testimonianza di come funziona, dentro a un popolo, una guerra: come un veleno in un organismo, che si diffonde e si moltiplica e infetta tutte le membra. Che è poi ciò contro cui ci ha messo in guardia il Papa, con ostinazione, in questi giorni.Nelle ultime righe, quasi con pudore, il giornalista scrive: la fede mi ha aiutato a resistere. La fede semplice, dice, imparata da bambino in campagna, da poveri preti che in bicicletta portavano i Sacramenti. Quella fede che Quirico definisce, semplicemente, un "darsi". Soltanto un darsi: uno spendersi per l’altro, in un desiderio di bene. Ma che luce viene da questa unica parola, in un reportage dall’inferno. Non ogni cosa, dunque, quel mare di Male ha inghiottito. Nel buio, la memoria di un altro sguardo e una antica, ereditata speranza hanno tenuto. E anche questo dovremmo farlo leggere ai nostri figli; perché sappiano, perché ricordino, ancora.