Analisi. Il Libano che scende in piazza ha fame anche di bene comune
Proteste di piazza nel centro di Beirut, il 20 ottobre (Ansa)
Il Libano conosce in questi giorni una di quelle esplosioni a cui è da sempre abituato. Un milione e più di persone domenica sono scese in piazza a Beirut per manifestare un malcontento contro la classe politica che da tempo covava sotto la cenere. Troppo complesso il Paese, troppo ricco di umanità plurale, troppo ferito dalle vicende belliche, troppo strategico per pensare che non sia condannato a patire periodiche crisi. Basti pensare che è un Paese di 4 milioni di abitanti che ha altrettanti cittadini di prima generazione in giro per il mondo (14 milioni di quarta generazione) e che attualmente ospita un milione e mezzo di siriani, senza contare il mezzo milione di palestinesi che vivono nei campi attrezzati per loro 70 anni fa. Basti ancora pensare a un puzzle etnico-religioso di 18 comunità confessionali riconosciute e un’altra dozzina di fatto, tra cui quella curda. Complessità che ha un corollario nel multilinguismo: se il dualismo franco-arabo è andato in pensione, ora nella stessa frase i libanesi inseriscono espressioni arabe, francesi e inglesi.
Basti altresì pensare all’ordinamento dello Stato, una sorta di "democrazia confessionale" unica al mondo, in cui convivono un presidente cristiano, un premier sunnita, un capo del Parlamento sciita, con un’assemblea sminuzzata tra partiti ma divisa fifty-fifty tra cristiani e musulmani. Con la conseguenza che i leader religiosi, dal capo Hezbollah Nasrallah al patriarca maronita Raï, hanno un’influenza determinante sulla politica. Una cospicua parte del territorio libanese, poi, non è controllata dell’esercito ma degli Hezbollah, che nel 2006 hanno resistito agli israeliani, in qualche modo salvando il Paese, ma aprendo un canale privilegiato con Teheran che oggi è perenne fonte di divisione. Quasi ogni giorno droni e aerei israeliani violano lo spazio aereo, mentre l’Arabia Saudita di Muhammad Bin Salman continua a far pressioni indebite: si ricorderà il "rapimento" nel novembre 2017 del premier Hariri.
Questa volta la crisi è scoppiata innanzitutto per ragioni economiche: il Paese conosce in effetti una grave penuria di dollari, valuta che circola in parallelo con la lira libanese, a un cambio di 1.500 lire per dollaro. Oggi in banca non si possono ritirare più di 2mila dollari, il che crea forti difficoltà alle imprese che pagano all’estero. A questo proposito va ricordato che le esportazioni libanesi si attestano a 3,91 miliardi e le importazioni a 20,8 miliardi, con un saldo negativo di 16,9 miliardi, su un Pil di 53,6 miliardi di dollari. Enormità. Così le pompe di benzina da tempo aprono a singhiozzo, mentre gli imprenditori sono costretti a elemosinare dai banchieri un allentamento delle limitazioni. Ma non tutti soffrono: un noto ristoratore italiano di Saifi, il centro più esclusivo di Beirut, dice di non accorgersi del problema, perché la sua clientela, che pesca in un insieme calcolabile tra il 5 e il 7% della popolazione, non ha tali "angustie marginali", vivendo di rendita, per fortuna familiare o perché aggregata al gran carro della politica. La gente non sopporta più la corruzione notoria e il malcostume dei politici: ha fatto scandalo la delegazione libanese all’Assemblea generale dell’Onu, la più cospicua di tutte, 163 membri. Vi faceva parte pure il parrucchiere di una donna ministro.
Ci sono i ricchi e ci sono i poveri: le disuguaglianze sociali si approfondiscono, non solo coi miseri (quella classe sociale così ben filmata da Nadine Labaki in Capharnaum), ma anche tra il 5-7% dei più benestanti e la classe media, che non ce la fa più a pagare l’assicurazione malattie (privata), a spendere un mare di soldi per l’educazione (privata) dei figli, a pagare i fondi-pensione (privati), mentre i figli ingegneri debbono espatriare. Senza parlare dei servizi: d’estate le abitazioni debbono rifornirsi di acqua con le autobotti; il 25% dell’energia elettrica viene prodotta con inquinantissimi generatori diesel posti negli angoli più impensati delle città; il gas non ha nemmeno una rete fissa; Internet conosce lentezze che farebbero innervosire il più calmo dei maestri yoga. E l’emergenza rifiuti? Si scaricano le immondizie in mare o nelle valli di montagna: se si arriva a Beirut in una giornata ventosa, l’aria attorno all’aeroporto si rivelerà mefitica, così come avviene nei quartieri "in" della capitale, per via delle discariche a cielo aperto.
Il governo da tempo appariva inadeguato, senza risposte convincenti, ma solo promesse. Sulla questione della circolazione dei dollari, ad esempio, da tempo sostiene che la soluzione consiste nell’uso massiccio dei pagamenti digitali, ma che riguardano al massimo un terzo della popolazione. Un modo di negare che la lira libanese è svalutata. Il presidente della banca centrale, Riad Salamé, fino a ieri rassicurava tutti: «Non si svaluta, pagate con la carta di credito», ma non rispondeva alla domanda sul perché i depositi in lire libanesi fossero remunerati fino al 17-20% dalle banche, chiaro indicatore di un cambio sotto stress, che la banca centrale poteva sostenere solo favorendo gli istituti di credito che accettavano di detenerne, versando interessi stratosferici. E a loro volta le banche non avevano nessun interesse a prestare ai privati e alle aziende, visto che detenere lire era così redditizio. Risultato, l’economia si è bloccata, come testimonia la bolla speculativa edilizia, con migliaia di appartamenti invenduti negli innumerevoli grattacieli opera delle gradi archistar.
Eppure il bellissimo Libano si sveglia ogni mattina e si inventa di nuovo, va avanti ancora un giorno, trova risorse insospettabili. Anche questa volta ha scelto la piazza per scuotere l’albero su cui sono appollaiati i ricchi e i potenti. Il professor Messarra, noto giurista, cattedra Unesco, sostiene che il più grave problema del Libano è il senso di bene comune: «Se non si riafferma la convinzione che il Libano è mio, è nostro, e che se non si rispetta il bene comune si fa danno a sé stessi, non c’è futuro per il Paese». La piazza di Beirut mostra che, se lo si vuole, il popolo avverte la sua unità e il senso del vivere comune: non a caso il Libano era stato definito da Giovanni Paolo II nel 1997, con una felicissima espressione, "un messaggio". Ma lo è ancora? Ha ancora senso una convivenza che si riduce a coabitazione forzata? Il milione e passa di libanesi scesi in piazza rispondono affermativamente. Le risorse per uscire dall’impasse non sembra possano venire dalla politica e nemmeno dalla religione istituzionale, ma piuttosto dall’intelligenza e dalla generosità della popolazione, dalla sua ancora incredibile capacità di mobilitazione, dalle mille e mille associazioni della società civile, dalla sua profonda religiosità. Forse anche stavolta la crisi verrà superata, ma servirà da parte dei politici il coraggio di fare un passo indietro e di anteporre il bene comune al bene particolare.