Il dibattito. Il "lavoro povero" senza reddito di cittadinanza: la coperta è più corta
Confesso un certo disagio nella campagna di apprezzamento per i “benefici” effetti sul lavoro stagionale dell’abolizione del reddito di cittadinanza, già nel regime transitorio al passaggio previsto dal 1° gennaio 2024 all’Assegno di Inclusione per i soggetti “occupabili” con età compresa tra i 18 e i 59 anni.
Si leggono dichiarazioni di associazioni datoriali del settore turistico e alberghiero di una notevole attenuazione della mancanza di almeno il 30% della forza lavoro che le aziende lamentavano a inizio anno, e che se continua così si potranno assorbire nei prossimi mesi alcune decine di migliaia di addetti, di cui i due terzi proverrebbero dagli ex percettori del RdC, o da chi teme di perderlo non rientrando nei requisiti dell’Assegno di inclusione varato dal governo Meloni. Né mancano gli aneddoti del ristoratore che ha rivisto ragazzi nell’esercizio a chiedere se c’era lavoro ai tavoli.
Insomma, si stanno vedendo gli effetti del venir meno previsto, nel passaggio tra le due misure, del RdC per 500mila persone. A nessuno pare venga in mente che il rischio è di assistere alla minore capacità “contrattuale” sul mercato del lavoro dell’esercito salariale di riserva cui attinge in Italia da sempre l’offerta di lavoro “povero”, perché precario (stagionale) o poco remunerativo (laureati cui si offrono poche centinaia di euro, come si è più volte letto), senza tutele (lavoro nero). Il Rdc – in sé una misura civilissima di welfare quasi dappertutto in Europa a sostenere cicli di vita esistenziali di persone comuni, nei loro bisogni basici, sempre meno allineati alle esigenze di flessibilità del mercato del lavoro – al di là del sostegno alla marginalità sociale dei suoi percettori, un effetto collaterale (per me positivo se non si riesce, come non si riesce, a fare di meglio sul piano strutturale) in aree “grigie” del mercato del lavoro in Italia, al Sud, nelle grandi città, lo aveva avuto, essendo impossibile credere che gli “occupabili” potessero tirare avanti con qualche centinaio di euro al mese (quel che garantiva il RdC), preferendo restare sul divano anziché lavorare. E cioè di alzare la loro capacità contrattuale nel lavoro sommerso o in nero loro offerto.
A quel che ho capito da non economista, il RdC integrava in molti casi il diffuso lavoro “povero” presente sul mercato. Insomma, per dirla tutta, si poteva scegliere di accettare un lavoro “povero” migliore perché meno precario, in sostanza non “stagionale”, e quindi su base annua più remunerativo. Un fai da te di un reddito personale meno di pura sopravvivenza. Diciamola così: non è certamente giusto, ma avessi avuto il RdC, avrei preferito fare il cameriere in nero in un ristorante tutto l’anno anziché perderlo per lavorare due o tre mesi con un contratto stagionale magari altrove dal divano di mamma dove dormo. Questa è l’Italia reale, Signori. Ed è a questa Italia che vanno offerte condizioni sociali e di lavoro diverse dalla disperazione che ti spinge ad essere disposto ad accettare qualsiasi cosa, qualsiasi arrangio di vita per andare avanti.
La vita non può dividersi tra chi si siede a tavola quando vuole e tra chi ti serve quando il ristorante è aperto, poi cavoli suoi. Ho ancora negli occhi le cose che vedevo da ragazzo di primissima mattina andando a scuola: i gradini di una chiesa dove si raccoglievano gli asfaltisti a giornata, che un caporale raccoglieva con la macchina. Non ne ho nostalgia. Bene o male il RdC ha rappresentato un magari rabberciato strumento di flexsecurity, cioè quella cosa sul mercato del lavoro, di cui nessuno parla più, per dare un minimo di sicurezza in un mercato del lavoro troppo flessibile, che per molti si spezza male. Abbiamo bisogno di risposte strutturali su questo, non di guerre ideologiche sulla pelle dei soggetti più deboli sul mercato del lavoro.