Il lavoro per davvero. Gran nodo tra vecchio e nuovo anno
Anche nell’anno che si chiude oggi, il 2017, si è parlato molto di lavoro. Dalla guerra di numeri sulle assunzioni del Jobs Act all’esplosione dei contratti temporanei, una volta terminati i generosi incentivi che avevano accompagnato la prima fase della riforma del mercato del lavoro. Dall’alternanza scuola lavoro alle politiche attive e di ricollocazione che stentano a decollare e che portano taluni a richiedere a gran voce il ripristino a pieno regime dell’articolo 18. Una norma simbolo per il lavoro questa che, in realtà, non è però mai stata abrogata tout court quanto, più semplicemente, superata dal Governo di Matteo Renzi per i soli nuovi assunti dal marzo 2015.
Non sono mancate le polemiche, gli scontri verbali e neppure nuove proposte per il prossimo anno. A cominciare da quelle da quelle messe a punto nella Settimana Sociale dei cattolici di Cagliari. L’imminente campagna elettorale fa anzi immaginare che quello del lavoro resterà un tema centrale anche nei prossimi mesi. Ma, nonostante ciò, c’è tutto un mondo del lavoro che resta invisibile e che viene richiamato solo talvolta e solo come arma dal populismo e dalla demagogia e per questo ancor più tradito. Si tratta di quella fetta di persone, giovani e anziani, uomini e donne, del sud e del nord, immigrati e irregolari che sono oggi esclusi dalle normali logiche del mercato del lavoro.
Alcuni di loro sono esclusi poiché non hanno proprio la possibilità di avere un lavoro, o perché hanno una formazione che non li prepara al lavoro o, peggio, perché espulsi a causa delle numerosissime crisi aziendali che abbiamo visto negli ultimi anni (e che ancora vediamo). Espulsioni non accompagnate da una seconda possibilità, ma accompagnate dal peso di competenze obsolete e dalla difficoltà, a cinquant’anni, di reinventarsi e tornare a studiare, anche perché oggi sono pochi gli strumenti che consentono di riqualificarsi mantenendo un reddito per sopravvivere. Ma non ci sono solo i disoccupati e gli inattivi.
Esistono in Italia tre milioni di lavoratori vittime del lavoro nero, che gli ultimi dati vedono in crescita e che lavorano senza tutele, senza una assicurazione previdenziale per il futuro, senza un salario dignitoso, senza una copertura in caso di infortuni sul lavoro e malattie professionali. E poi coloro che pur avendo formalmente un contratto si trovano a lavorare in condizioni lontane da ciò che ci si aspetterebbe da un Paese moderno, come i lavoratori (un sindacalista italiano, un albanese, un ivoriano e un cinese) che a nome di 127 colleghi a Castelnuovo Rangone, nel cuore dell’Emilia, hanno condotto uno sciopero della fame di protesta, appena concluso, nell’indifferenza (quasi) generale.
A questo si aggiungono gli immigrati, che in Italia più che in ogni altro Paese europeo finiscono presto a ricoprire quei lavori più umili e dal salario più basso, mostrando la nostra incapacità di sfruttare al meglio un capitale umano che spesso è molto più qua-lificato di quello che si immagina. Per non parlare poi di tutte quelle persone affette da malattie croniche o peggio ancora da disabilità per i quali il lavoro sembra essere negato di diritto, quasi che in un mondo in cui la medicina e la tecnologia fanno miracoli non vi sia la possibilità per persone con problemi fisici e mentali di contribuire al bene comune attraverso il loro lavoro. Il modo migliore per fare un torto a questo lungo elenco di 'invisibili' sarebbe renderli oggetto di qualche bel pensiero natalizio e di fine anno, quasi che un periodo di quiete e gioia ci imponga moralisticamente di guardare a chi sta peggio di noi. Al contrario l’auspicio per il prossimo anno è che queste persone siano messe al centro della agenda politica non solo come un problema a cui guardare ma come una enorme risorsa di energie e speranze da liberare.
Perché come non ha futuro una società che relega i malati a problema dei familiari, così non hanno domani società ed economie che hanno smesso di essere inclusive e di moltiplicare le opportunità a beneficio di tutti. E questo non significa rilanciare politiche di mera assistenza oggi impossibili per i vincoli di bilancio e per il debito che ci caratterizza. Ma costruire e attuare politiche che includono proprio perché attivano la persona, la rendono in grado di partecipare, prima di tutto attraverso il lavoro, alla società.