Nonviolenza. Il giorno in cui don Tonino Bello parlò a Sarajevo
Ancona, 13 dicembre ‘92: a destra don Tonino Bello, a sinistra don Albino Bizzotto dei “Beati i costruttori di pace”, di ritorno da Sarajevo
La nave dei “folli” si staccò dal porto di Ancona il 7 dicembre di trent’anni fa sotto un cielo da paura. A bordo del Liburnija 496 persone dirette a Sarajevo, la città bosniaca martirizzata da nove mesi e stretta sotto assedio dalle milizie serbe: un esercito di “pacifisti” armati solo del loro essere inermi, pronti ad irrompere nel cuore del conflitto per costringerlo a una tregua anche solo di ore. «In 100.000 a Sarajevo!» era lo slogan con cui don Albino Bizzotto, guida di “Beati i costruttori di pace”, aveva chiamato all’invasione pacifica della città insanguinata. Risposero in 500.
Tra loro c’erano giovani e vecchi, credenti e atei, suore e obiettori di coscienza, anarchici e sacerdoti, anche due vescovi, Luigi Bettazzi e Tonino Bello, suo successore alla testa di Pax Christi. Ha 58 anni, don Tonino Bello, ed è minato dal cancro, ma è deciso a interporsi fisicamente tra le parti in guerra per dimostrare che la nonviolenza può funzionare. Quel 7 dicembre coloro che si imbarcano sanno bene che l’impresa può essere senza ritorno, in molti hanno cercato di farli desistere, ma loro hanno raccolto il sogno e sono partiti, nello zaino acqua e cibo per quattro giorni, poi si vedrà. La prima tappa è Spalato, 7 ore di traversata, ma l’Adriatico scatena una tempesta di tale violenza che il Liburnija, dato per disperso dalle agenzie di stampa, arriverà sull’altra sponda con 12 ore di ritardo. «Siamo passati per l’acqua e per il fuoco e il Signore ci ha liberati», dirà poi don Tonino citando la Bibbia, «l’acqua di quel mancato naufragio terrificante, il fuoco delle granate». Vogliono entrare a Sarajevo il 10 dicembre, Giornata mondiale dei Diritti umani, ma i continui posti di blocco e le estenuanti trattative con i capi militari dei diversi eserciti rallentano la marcia. Dell’arrivo della carovana è preavvisata l’Onu, sono preavvisati i rappresentanti delle fazioni in lotta, ma per i 500 non ci sarà protezione, nessuna garanzia, procederanno a loro rischio e pericolo, a bordo di dieci pullman malmessi e due ambulanze portate in dono dall’Italia, una per fronte.
L’11 dicembre l’arrivo sulla montagna innevata che sovrasta Sarajevo, ma ancora non è finita: «Una delegazione di dieci di noi si reca a Ilidža a parlamentare con le autorità militari serbe, è una trattativa lunghissima – racconta don Tonino –. Intanto la gente del posto viene sui pullman a offrirci tè caldo. Una signora serba ha visto gli autisti intirizziti dal freddo e, benché fossero croati, li ha portati a casa sua e ha offerto un pranzo per loro». È l’inizio del miracolo umano. La popolazione, prima incuriosita e poi commossa, li attornia, li abbraccia, «un uomo ha visto la mia croce al collo e l’ha baciata, poi mi ha invitato a casa sua dove era in corso il banchetto funebre per suo padre. Sono entrato e mi ha detto: “Io sono serbo, mia moglie è croata, queste mie cognate sono musulmane, eppure viviamo insieme da sempre e ci vogliamo bene. Perché questa guerra? Chi la vuole?”
A vedere quella gente seduta alla stessa mensa ho pensato alla convivialità delle differenze: questa è la pace». Infine i 500 entrano in città nel silenzio allucinato delle 7 di sera, quando ormai nessun essere umano oserebbe percorrere il “vialone della morte” crivellato dai cecchini. «Da nove mesi dopo le quattro del pomeriggio neppure le camionette dell’Onu hanno il coraggio di entrare», annota don Tonino, «ma stasera qui c’è un’altra Onu, un’Onu rovesciata ». Le bombe chiamano bombe, il loro essere lì in pace sta provando al mondo intero che un’alternativa esiste e funziona: «A questa Onu che scivola in silenzio nel cuore della guerra il cielo vuole affidare un messaggio: che la pace va osata». Siamo abituati a pensare che “osare” sia il verbo del combattere, quando per morire e ammazzare ci vuole coraggio, invece è la pace che va osata e che davvero richiede coraggio. Solo il giorno prima Sarajevo è stata colpita da tremila granate, ma per la durata in cui gli inermi percorrono il terreno di guerra è evidente che i militari hanno abbassato l’intensità del fuoco.
L’indomani, 12 dicembre, «è incredibile l’accoglienza della gente lungo le strade e dalle finestre», quel gruppo venuto da fuori significa che il mondo esterno non li ha dimenticati. Poi nel buio e nel gelo del cinema don Tonino Bello tiene il discorso destinato a restare nella storia, ad ascoltarlo anche i capi delle diverse religioni in lotta. Nel 1992 non esistono i cellulari e le autorità hanno vietato le riprese, ma don Renato Sacco, consigliere di Pax Christi, registra di nascosto consegnando al futuro un documento di rara potenza: «Questa è la realizzazione di un sogno – dice il vescovo, il corpo crocifisso dalla malattia ma lo sguardo acceso di passione – di una grande utopia che abbiamo tutti portato nel cuore, probabilmente sospettando che non si sarebbe realizzata. Ma ringrazio il Signore che, attraverso il nostro gesto folle, ha realizzato l’utopia». Parola che nel suo vocabolario significa azione che contrasta la rinuncia, movimento che contrasta la staticità: «Queste forme di utopia dobbiamo promuoverle, altrimenti le nostre comunità che cosa sono? Sono solo le notaie dello status quo, non le sentinelle profetiche che annunciano tempi nuovi».
Le sue parole infuocano e consolano la popolazione piegata da mesi di tragedia. «Quanta fatica si fa a far capire che la soluzione dei conflitti non avverrà mai con la guerra ma con il dialogo – continua il vescovo –, abbiamo fatto fatica anche qui con i rappresentanti religiosi, perché è difficile questa idea della soluzione pacifica dei conflitti. Ma noi siamo venuti a portare un germe: un giorno fiorirà». Per le strade ha toccato con mano «il pianto dei soldati! E questo per me è l’icona dell’anelito di pace che è sepolto nel cuore di tutti gli uomini», purché li si scrolli dalla falsa certezza che la guerra sia ineluttabile. Non ha inventato nulla. Vive il Vangelo e ripercorre le orme di san Francesco d’Assisi, salpato anche lui da Ancona 800 anni fa per frapporsi senza armi tra i crociati e i saraceni, sostenuto dal sogno di parlare al sultano e convincere i soldati a non combattere. Funziona: la presenza dei 500 da ore sta effettivamente fermando la guerra, «la nonviolenza attiva è diventata un trattato scientifico. Gli eserciti di domani – promette – saranno uomini disarmati! Ma occorre un’azione intellettuale, bisogna che le nazioni promuovano le tecniche della strategia nonviolenta». È quel “ministero della Pace” oggi invocato dall’Associazione Papa Giovanni XXIII di don Benzi al posto dei ministeri della Difesa o della Guerra. Non è mera questione semantica, il nome indica l’obiettivo: per questo abbiamo ministeri della Salute e non della Malattia, dell’Istruzione e non dell’Ignoranza.
«Ricordare questi fatti dopo 30 anni non sia un indulgere alla nostalgia – avverte da Pax Christi don Renato Sacco – ma un denunciare quanto forse le parole di don Tonino Bello le abbiamo dimenticate, le stiamo riesumando adesso perché la guerra in Ucraina ci tocca da vicino. La domanda che all’inizio anche i leader religiosi ci fecero a Sarajevo era: va bene la pace, ma le armi dove sono? Ce le avete portate? Sono le stesse argomentazioni sostenute oggi da chi alla guerra non vede alternativa e pensa “ok la nonviolenza, ma il realismo sono le bombe”. Ricordo ciò che allora mi disse il vescovo ausiliare di Sarajevo, Pero Sudar, parole che oggi mi danno forza: “Anch’io ero convinto che solo le armi avrebbero risolto, ma quello che ho visto al vostro arrivo mi ha convertito all’evidenza che l’unica scelta è la nonviolenza, la fedeltà radicale al Vangelo”. Questo è ciò che rende attuale la mobilitazione di 30 anni fa, non per l’impresa eroica, ma per trovare anche oggi una via davvero percorribile, altrimenti andremo a sbattere». Che cosa resta, allora, di quegli «eserciti di domani che saranno uomini disarmati »? Sono morti con don Tonino, che ha lasciato questa terra quattro mesi dopo il ritorno da Sarajevo, o “funzionano” ancora da qualche parte nel mondo? Alberto Capannini e gli altri volontari dell’Operazione Colomba (Associazione Papa Giovanni XXIII) vanno nei conflitti, li abitano da dentro, schierano tutti i giorni la loro inerme presenza accanto alle vittime. «A quel seme in tanti abbiamo dato terra e concime, ma la pianta non si è ancora sviluppata – commenta Capannini –, basta guardare quanto accade in Ucraina. Ci sono vari parallelismi tra la guerra dei Balcani e quella in Ucraina, entrambe esplose in Europa da braci che covavano sotto la cenere, e di nuovo tra Paesi slavi, un mondo che spesso non conosciamo, con molti punti di vista diversi tra loro ma concordi in una sola cosa, nel pensare che l’altro capisca solo il linguaggio della guerra: questo dicono gli ucraini dei russi e questo dicono i russi degli ucraini. Anche noi i mesi scorsi abbiamo portato le nostre invasioni pacifiche in Ucraina insieme ad altre associazioni, ma come nel 1992 non hanno risposto in 100.000 ma in poche centinaia. Eppure in piazza a Roma i pacifisti erano davvero centomila, poi sono rimasti a casa».
Recarsi nel cuore del conflitto in corso nell’ex Jugoslavia sembrava un folle sogno, è diventata un’utopia realizzata. La speranza di poter vincere la pace senza le armi è ancora viva - .
Le donne e gli uomini di Operazione Colomba “osano” la pace, in trent’anni sono stati nei conflitti di Bosnia, Croazia, Kosovo, Sierra Leone, Congo, Uganda, Cecenia, Timor Est, Cile, Colombia, Palestina e Israele, Siria e Libano, sulla rotta balcanica e ora in Ucraina. Dove hanno fallito le grandi potenze sono arrivati loro, non hanno fermato gli eserciti ma ogni volta hanno creato ponti e reso possibili dialoghi prima inimmaginabili: «Non è possibile trovare soluzione al conflitto da fuori. Certo non può fermarlo l’Europa dei mercati, capace solo di alzare muri e vendere armi. Oggi c’è un “buon” motivo per venderle, chi può pretendere che l’Ucraina si arrenda all’invasore russo?, ma il problema è che le vendeva prima, questa è una mentalità che va scardinata già in tempo di pace, non quando la guerra è scoppiata e il malato è terminale». Siamo partner commerciali di regimi indifendibili – denuncia Capannini – come l’Arabia Saudita, cui vendiamo le armi per opprimere i popoli, o la Russia, «poi quando ti portano la guerra nel cuore d’Europa ci stupiamo manco fosse un cataclisma naturale. In Siria per dieci anni Putin ha bombardato scuole e ospedali, e adesso scopriamo che va fermato con le nostre bombe? Nei “negoziati” Ucraina e Russia non si sono mai nemmeno sedute nella stessa stanza».
Anche don Tonino Bello tornando a casa si interrogava, «qual è il tasso delle nostre colpe di esportatori di armi in questa delirante barbarie che si consuma sul popolo della Bosnia? Fino a quando la cultura della nonviolenza rimarrà subalterna?». Era il 13 dicembre 1992, i 500 “folli” tornavano vincenti, contro ogni pronostico erano arrivati fin dentro la guerra e in loro presenza le armi avevano taciuto. Don Tonino, tra «il rimorso del poco che si è potuto seminare» e «l’incontenibile speranza che le cose cambieranno», si avviava verso l’ultima Grande Partenza avvenuta il 20 aprile 1993. A Facen di Pedavena (Belluno) in un museo che da decenni osa la pace, tra le stole dei santi è conservata anche quella del venerabile don Tonino Bello, non un segno di potere ma il potere di un segno, il «grembiule che ci fa lavapiedi del mondo», come la definiva il vescovo di Molfetta. Nello stesso “Museo dei Sogni, della Memoria e della Coscienza” sono conservati 25 grandi pani impastati lo scorso Natale nei luoghi più simbolici della terra, tra questi la pagnotta che sulla crosta porta l’impronta della croce di don Tonino: «Sono pani impastati con il sale giunto da 50 nazioni – spiega il direttore Aldo Bertelle – e ora viaggeranno a ritroso, ognuno verso un luogo di conversione ». Il pane di don Tonino Bello passerà di mano in mano sul Ponte di Sarajevo.