Energia. Il gas americano conquista l'Ue. Svolta politica, non ambientale
Una nave cisterna arriva nel porto di Rotterdam portando gas naturale liquido dagli Stati Uniti
Nel giro di qualche anno gli Stati Uniti diventeranno il primo fornitore di gas naturale dell’Unione Europa, prendendo il posto della Russia. L’accordo annunciato ieri a Bruxelles da Joe Biden e Ursula von der Leyen segna un cambiamento epocale nel mercato dell’energia e negli equilibri geopolitici che si porta dietro. Un passaggio sorprendente e che qualche anno fa sarebbe stato impensabile. I l presidente americano Biden si è presentato al Consiglio Europeo con l’impegno di aumentare di 15 miliardi di metri cubi all’anno le forniture di gas naturale all’Europa per arrivare gradualmente a 50 miliardi di metri cubi aggiuntivi.
Non basteranno a sostituire per intero i 155 miliardi di metri cubi che oggi l’Ue riceve dalla Russia, ma sono un ampio passo in quella direzione. I piani europei prevedono di azzerare le forniture del gas da Mosca «ben prima del 2030» iniziando con un taglio da 50 miliardi di metri cubi già quest’anno. L’Italia, secondo maggiore consumatore di gas russo dopo la Germania, è andata a cercare alternative nei Paesi dove era normale cercarla. L’Algeria, a cui siamo collegati da quasi quarant’anni tramite il gasdotto Transmed, che arriva a Mazzara del Vallo, e l’Azerbaigian, che ci rifornisce tramite il Tap, la condotta che si collega a Melendugno, vicino a Lecce. Ma anche il Qatar e il Congo, con i quali abbiamo ormai un rapporto consolidato. Le missioni del governo sono servite. Nei prossimi anni l’Italia potrà coprire con nuovi accordi con questi Paesi parte del buco che lascerà il prevedibile taglio delle forniture dalla Russia. Ma per l’Europa l’alleato strategico privilegiato per l’energia saranno gli Stati Uniti d’America. U n alleato imprevedibile ancora pochi anni fa.
Gli Stati Uniti hanno una lunga storia di successo nel campo dell’estrazione di idrocarburi, ma non sono mai stati grandi esportatori. Né di gas né di petrolio. Dagli anni 50 all’inizio degli anni 80 la produzione di gas americano copriva appena il fabbisogno interno. Nei trent’anni successivi non era più sufficiente e gli Stati Uniti sono diventati grandi importatori di metano. Poi hanno scoperto (o, meglio, riscoperto) gli idrocarburi “non convenzionali”, il petrolio e il gas shale e tight, intrappolati in rocce argillose o porose a qualche chilometro di profondità. Con la fratturazione idraulica, tecnica conosciuta da quasi un secolo ma affinata negli ultimi vent’anni, le compagnie petrolifere sparano sottoterra ad altissima pressione un fluido fatto di acqua e additivi chimici che rompe le rocce e libera il petrolio o il gas naturale che a quel punto può essere riportato in superficie. Sono tecniche controverse: diversi studi sono arrivati alla conclusione che il fracking potrebbe contaminare le falde acquifere e generare eventi sismici. In diversi Paesi europei, Italia compresa, il fracking è vietato.
Gli idrocarburi non convenzionali hanno cambiato la storia energetica degli Stati Uniti. Tra il 2010 e il 2020 la produzione di gas è quasi raddoppiata, da 575 a 907 miliardi di metri cubi all’anno, quella di petrolio ha fatto anche meglio, passando da 7,7 a 16,6 milioni di barili al giorno. Nel 2019 gli Usa sono diventati indipendenti per le forniture energetiche, non succedeva dal 1957. Questa sovrabbondanza di materie prime ha trasformato gli Usa in un grande esportatore di idrocarburi, capace di competere con potenze storiche e consolidate come l’Arabia Saudita o la Russia. Come esportatori però gli Stati Uniti hanno un problema rispetto ai rivali: sono lontani dai territori che più hanno bisogno di gas e petrolio, cioè l’Europa, il Giappone e la Cina. Per raggiungerli deve attraversare gli oceani.
Washington ha costruito una massiccia infrastruttura di impianti per la liquefazione del gas naturale: ne ha costruiti 16 negli ultimi cinque anni. Sono impianti che portano il gas naturale allo stato liquido: abbassano la sua temperatura a 162 gradi sottozero, ne riducono il volume a un seicentesimo di quello iniziale. Quindi lo caricano sulle metaniere che si dirigono verso un impianto di rigassificazione, dove il gas viene riportato allo stato gassoso e iniettato nella rete dei gasdotti. I l 26 aprile del 2016 la metaniera Creole Spirit ha scaricato a Sines, in Portogallo, i primi 170mila metri cubi di gas americano mai esportato nell’Unione Europea. Sembrava più un esperimento che altro. Nei mesi successivi una se- conda metaniera ha raggiunto la Spagna, che ha sei impianti di rigassificazione, e una terza l’Italia, che ha tre rigassificatori (uno a terra, a Panigaglia, e due in mare, che sono una piattaforma a Rovigo e un impianto galleggiante al largo della Toscana).
Nel 2017 sono arrivate in Europa quindici metaniere americane, nella prima parte del 2018 solo tre. Il 25 luglio di quell’anno le cose cambiano. In un incontro a Washington, il presidente americano Donald Trump e Jean-Claude Juncker, presidente della Commissione europea, si impegnano a rafforzare la cooperazione energetica tra Ue e Usa. È l’inizio del boom. Nel primo anno dell’accordo le importazioni di gas naturale liquefatto dall’America aumentano del 367%. Tra il 2018 e il 2021 la crescita delle importazioni di gas liquefatto americano è aumentata di quasi venticinque volte. Con 22,2 miliardi di metri cubi consegnati nel 2022, gli Stati Uniti sono diventati il quarto maggiore esportatore di gas naturale dell’Unione Europea, dopo la Russia, la Norvegia e l’Algeria. Con l’aumento da 15 miliardi annunciato ieri saliranno al terzo posto. Se davvero aggiungeranno altri 50 miliardi di metri cubi e nel frattempo l’Europa avrà abbandonato il gas russo, gli Usa si giocheranno il primato delle forniture con la Norvegia, con buone probabilità di superarla.
Solo nel mese di gennaio di quest’anno hanno attraccato negli impianti di rigassificazione europei 47 metaniere americane, che hanno scaricato 4,4 miliardi di metri cubi di gas per un incasso stimato in 4,1 miliardi di euro. Nell’intero 2021 ne erano arrivate 248. Il traffico di tanker tra l’Atlantico e il Mediterraneo non è mai stato così intenso. Ci sono diverse incognite sulle prospettive del rapporto energetico che stanno costruendo Washington e Bruxelles. I primi problemi sono tecnici. Non è chiaro quanto gli Stati Uniti possano incrementare la produzione di gas naturale: le aziende faticano a trovare il personale e le materie prime necessarie per avviare nuovi progetti, anche perché è chiaro che i prezzi elevati di questi mesi (che giustificano gli investimenti) non potranno durare per sempre.
Mentre è sicuro che, allo stato attuale, gli impianti di rigassificazione dell’Unione Europea non sono organizzati per convertire ogni anno 50-60 miliardi di metri cubi di gas naturale aggiuntivi. La Spagna è l’unico Paese che ha una grande capacità di rigassificazione inutilizzata (circa 40 miliardi di metri cubi l’anno) ma è collegata male al resto della rete dei gasdotti europei. Quindi non ha modo di trasferire tanto gas al resto dell’Ue. Si ipotizza un collegamento via mare diretto con l’Italia. L’Europa investirà nella realizzazione di nuovi impianti di rigassificazione (l’Italia ne sta studiando due temporanei, per ora) ma servono almeno un paio d’anni per farli partire. Anche la rete dei gasdotti interni dovrà essere adeguata. È stata costruita per un traffico che andava soprattutto da Est a Ovest e ora dovrà essere pronta a gestire una situazione diversa. C’è poi l’aspetto ambientale, legato al fracking in sé e al gas naturale più in generale: se il metano è la più “pulita” delle fonti fossili, quello ottenuto dalla fratturazione idraulica è senza dubbio la sua versione meno “verde” per gli effetti che ha sul pianeta.
C’è infine il problema del prezzo. Il gas naturale liquefatto per tutti i processi di lavorazione che coinvolge è più costoso di quello rimasto allo stato gassoso e trasferito in una condotta. Difficile avere cifre precise, perché i contratti variano, ma si può dire che in media il prezzo finale è superiore del 20%. È una contabilità che oggi non vale più, perché l’invasione dell’Ucraina ha sballato i valori del mercato, ma nel 2020, dicono le rilevazioni di BP, il prezzo per unità termica del gas europeo TTF era sui 3,07 dollari, quello del gas americano a 1,99 dollari mentre il gas naturale liquefatto giapponese era sui 4,39 dollari. Il gas 'made in Usa' non potrà che essere più caro di quello della Russia pre-invasione. Su questo punto l’accordo tra Usa e Ue precisa esplicitamente che i prezzi del gas non potranno essere legati ai valori assurdi del mercato di queste settimane, ma non dice molto di più. È chiaro che Bruxelles punta a ottenere uno sconto e che Washington può concederlo, considerato quanto gli Stati Uniti ci tengano a spezzare il lungo matrimonio energetico tra l’Ue e Mosca.
L’ultima variabile, non da poco, è quella degli equilibri interni all’Ue. La Germania, con la condotta Nord Stream che la collega direttamente alla Russia, oggi è il punto di ingresso privilegiato del gas in Europa. Con un ribilanciamento “atlantico” delle forniture quel ruolo si sposta necessariamente ad Ovest: in Portogallo, Spagna, Francia. Paesi che sono il primo punto d’attracco naturale per navi che arrivano dal Golfo del Messico. In questa situazione può uscire rafforzato anche il ruolo dell’Italia. Grazie ai collegamenti con il Nordafrica e l’area del Caspio, il nostro Paese può diventare il principale punto di ingresso europeo del gas più economico, quello che dal Sud arriva tramite i gasdotti, e giocarsela con i Paesi Bassi, da dove entra gran parte del gas norvegese.
Tutti nuovi scenari che si costruiranno rapidamente. Tra qui e il 2030, conterà molto la capacità dei governi di capire la situazione e lavorare perché questo passaggio sia il più agevole possibile. Soprattutto, i programmi sul gas dovranno incastrarsi con la transizione energetica e quindi con l’obiettivo delle emissioni zero per il 2050. Non a caso già ieri von der Leyen e Biden hanno parlato anche di collaborazione con l’idrogeno, che è la più naturale alternativa al gas naturale (a emissioni zero). Di tutte le sfide globali dell’energia, quella della neutralità carbonica resta inesorabilmente la più complicata.