Il Papa e la via alla santità. Il futuro è nell'inizio
Maurizio Gronchi
Chi ha letto volentieri le prime due Esortazioni apostoliche di papa Francesco – Evangelii gaudium e Amoris laetitia – non faticherà a gustare la terza, che invita a rallegrarsi: Gaudete et exsultate. Perché ancora di gioia si tratta: quella che nasce dall’incontro con Gesù Cristo e con gli altri, nella semplice vita quotidiana, fatta di apparenti banalità. Ma proprio in questi frammenti di esistenza, e soprattutto nelle esistenze frantumate, si nasconde il seme della santità. Come il regno di Dio, che cresce lentamente ed è difficile accorgersene: «Il regno di Dio è come un uomo che getta il seme nella terra; dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce; come, egli stesso non lo sa. Poiché la terra produce spontaneamente, prima lo stelo, poi la spiga, poi il chicco pieno nella spiga» (Mc 426-28).
Queste parole di Gesù ci aiutano ad entrare nel mistero della santità: c’è un seme che matura e si sviluppa pian piano, per virtù propria, fino a diventare frutto. Certo, ha bisogno di essere coltivato, non soppresso, aiutato a realizzarsi in pienezza, ma il suo futuro è già nascosto nell’inizio. A ben guardare, in questa semplice parabola è segnato il cammino che ciascuno di noi è chiamato a fare: dal battesimo all’eucaristia, dal fonte battesimale all’eternità beata. Dunque, c’è una chiamata che sta dentro l’origine, non che interviene dopo, chissà quando. Per tale ragione la santità riguarda tutti. Questo, in sostanza, dice il primo capitolo dell’Esortazione.
Purtroppo talvolta ci siamo abituati a pensare la santità come frutto dello sforzo sovrumano di cui pochi sono capaci, e quasi nessuno ce la fa. Oppure come un destino riservato agli eletti, che si staccano dalla massa indistinta dei mediocri. A questi due estremi – la vetta raggiunta da eroi solitari e il premio dei predestinati – si rivolge il secondo capitolo della Esortazione, perché si tratta di nemici sottili, che si fanno credere amici. Quante volte abbiamo sentito il racconto delle virtù eroiche dei santi, della loro ammirabile ascesi, delle prove inaudite cui sono stati sottoposti. Come da un libro d’avventura, siamo stati attratti, appassionati, elevati. Sui banchi del seminario o nella cappella delle suore una volta non mancavano vite di santi, perché la spiritualità potrebbe trarre buon alimento da storie straordinarie. A qualcuno sarà sicuramente servito, ma ad altri forse no. Un po’ come accadde a sant’Ignazio di Loyola, quando leggeva i racconti cavallereschi: questi lo esaltavano, ma poi rimaneva desolato. Invece, leggendo il Vangelo, egli vi trovava consolazione. Questo brano, che troviamo nella liturgia delle ore della sua festa, è l’esempio più chiaro di cosa sia il discernimento degli spiriti.
C'è un modo di guardare alla santità – quello pelagiano – che sconsola, perché dopo tanta fatica si cade ancora, col rischio di disperarsi. Ce n’è un altro che desola ugualmente – quello gnostico – perché ci fa credere superiori per la conoscenza, e poi ci accorgiamo di non avere cuore e tenerezza per nessuno. Se papa Francesco se la prende con questi sottili nemici è proprio per proteggerci da due forme di ingenuità più che di cattiveria. Infatti, è il Nemico che ci fa credere che tutto dipende da noi o, al contrario, che tutto è già scritto. La conseguenza è che senza la verità della carne di Gesù e senza la tenerezza per la carne ferita del fratello non c’è santità, non c’è salvezza. Per questo ci salva Gesù morto e risorto, e si diventa santi in mezzo agli altri, anche quando uno stesse in cima a un monte, come un eremita. Senza carne e senza comunità non c’è né storia né eternità: perché in paradiso ci saremo anche col corpo e insieme a una moltitudine.
Anzi, scrive il Papa: «...con gli scarti di questa umanità vulnerabile, alla fine del tempo, il Signore plasmerà la sua ultima opera d’arte. Poiché 'che cosa resta, che cosa ha valore nella vita, quali ricchezze non svaniscono? Sicuramente due: il Signore e il prossimo. Queste due ricchezze non svaniscono!'» (Ge 61). Per approfondire la piena consonanza dottrinale e pastorale tra la chiamata alla santità e la visione della salvezza cristiana merita leggere la recente e breve Lettera Placuit Deodella Congregazione per la dottrina della fede. La strada per il cielo, dunque, attraversa la terra: infangata, sporca, accidentata. Lungo questi sentieri alcuni cadono a causa di altri, e altri aiutano i feriti a rialzarsi. Ecco le beatitudini – nel terzo capitolo – che non sono tutte dello stesso genere. Alcune hanno il sapore forte della prova: la povertà interiore e materiale, il pianto, la fame e sete di giustizia, la persecuzione e l’offesa. Altre hanno il gusto delicato della tenerezza: la mansuetudine, la purezza di cuore, la misericordia, la pace. Come per dire che ognuno, per la sua strada, è chiamato a essere il meglio di sé, quello che Dio ha pensato per lui o per lei, ma non da solo, mai da soli. Quando si ha la grazia di avvertire che il Vangelo è possibile in qualunque situazione ci troviamo, allora è bene sapere quali sono gli indicatori della via comune alla santità. Nel quarto capitolo troviamo i tratti essenziali, che specialmente oggi ci dicono che siamo sulla strada giusta: pazienza, umorismo, audacia, comunità, preghiera. Certo, non basta prendere alla lettera questi segnali per sentirsi a posto. Lottare, vigilare, discernere sono i tre verbi che – nel quinto capitolo – verificano lo stato di avanzamento del lavoro artigianale del discepolo di Gesù. L’immagine che viene fuori dalla lettura attenta e meditata della Esortazione potrebbe perciò assomigliare a quella detta all’inizio: un seme – quello della vita cristiana nella grazia – che, per giungere alla «misura che conviene alla piena maturità di Cristo» (Ef 4,13), ha bisogno di essere coltivato con pazienza e umiltà, nella certezza che «né chi pianta, né chi irrìga è qualche cosa, ma Dio che fa crescere» (1Cor 3,7).
Ordinario di Cristologia – Pontificia Università Urbaniana