Rete. Il futuro digitale della politica: la Cdu più vitale dei 5 Stelle
Armin Laschet, nuovo leader della Cdu tedesca
«Essere conservatori significa marciare all’avanguardia del progresso». Ho pensato a questa frase seguendo in internet il primo Digitaler Kongress del maggiore partito europeo, la Cdu di Angela Merkel. E subito ho pensato a quest’altra frase: «I partiti sono morti, organizzazioni del passato, i movimenti sono vivi», del fondatore del Movimento 5 Stelle, Beppe Grillo, un concetto scritto sotto il logo e nello statuto («Il Movimento 5 Stelle non è un partito e non intende diventarlo») e ribadito nel 2019 dal suo 'capo politico' di allora, Luigi Di Maio: «Il Movimento non diventerà mai un partito». La prima frase che ho citato («all’avanguardia del progresso») è uno dei caposaldi ideologici dell’Unione cristiano-democratica tedesca, fondata nel 1945. La seconda frase («I partiti sono morti...») è il fulcro ideologico del maggiore attore politico italiano attuale, il Movimento 5 Stelle, fondato nel 2009. È utile comparare le due posizioni, perché anche da esse dipende il futuro della politica nell’era digitale. I partiti hanno ancora un ruolo nelle democrazie? Le procedure politiche digitali possono addirittura sostituire i partiti – come affermano i teorici del Movimento 5 Stelle? Oppure il digitale può rinvigorire proprio quei partiti che conosciamo da più di cento anni?
Confrontare le procedure politiche digitali della Cdu e del M5s è molto interessante. Esse, infatti, sono una 'prima' mondiale per due partiti di massa che forse farà scuola. Cdu e 5 Stelle hanno eletto con il 33% dei voti la rappresentanza più numerosa nei rispettivi Parlamenti, e governano come maggior partito in una coalizione nella quale hanno sinora espresso il capo del governo. Entrambi hanno svolto le loro ultime assise ed eletto il loro vertice completamente in internet. Il congresso digitale della Cdu, il 33° della sua storia, ha una grande valenza politica non solo per la Germania. Sono state elette, infatti, le quindici personalità che dovranno guidare il partito nell’impegnativo dopo-Merkel: presidente, vicepresidente e ufficio politico. Il compito del nuovo presidente Armin Laschet è gravoso. Tradizionalmente, infatti, il presidente della Cdu diventa il suo candidato alla cancelleria e, in caso di vittoria elettorale, il capo del governo. A volte il o la presidente ricopre entrambi gli incarichi per un ventennio, come nel caso di Helmut Kohl e di Angela Merkel, lasciando così una forte impronta nelle vicende tedesche e europee.
La data del congresso della Cdu è stata fissata con mesi d’anticipo, durante i quali si sono svolte due selezioni fondamentali e trasparenti. La prima è quella dei tre candidati alla votazione finale: Armin Laschet, Friedrich Merz e Norbert Röttgen. La seconda è l’elezione dei mille delegati – ognuno in carica per due an- ni – a partecipare al congresso nazionale con diritto di voto. Entrambe queste selezioni sono state compiute nelle centinaia di sezioni locali della Cdu, là dove si svolge la vera vita del partito. I tre candidati sono tra le personalità politiche più note in Germania e hanno manifestato i loro orientamenti in dibattiti televisivi e nei media. Una procedura simile si svolge anche negli Usa e altrove con le cosiddette 'elezioni primarie'. Il congresso digitale della Cdu si è svolto dal 14 al 16 gennaio. Si sono collegati e hanno votato tutti i mille delegati. La partecipazione è stata totale, perché ogni delegato aveva la responsabilità di rappresentare i membri della sua sezione locale. Per tre giorni i tre candidati hanno pubblicamente risposto alle molte domande dei delegati e infine hanno tenuto discorsi articolando le loro proposte. Come è noto, in una competizione serrata, Laschet è stato eletto con 521 voti (52%), contro Merz con 466. La nomina di Laschet è stata subito proclamata nei media. Per avere valore legale, però, essa ha dovuto essere confermata dai voti cartacei postali dei mille delegati. Questa procedura unisce il vantaggio dei due sistemi: il valore legale del voto cartaceo, e l’immediatezza della votazione internet, intrinsecamente soggetta a errori e manipolazioni.
Anche il M5s ha eletto il suo 'capo politico' in internet, il 23 settembre del 2017, ma con una procedura diversa da quella della Cdu. La data dell’elezione è stata comunicata solo 48 ore prima. Per più di un anno i media del partito e quelli nazionali hanno presentato Luigi Di Maio come il capo predestinato dalla centrale del Movimento. Tre giorni prima dell’elezione in internet i nomi di altri sei candidati – tra i quali una donna – sono comparsi sull’organo ufficiale del Movimento. Tra di essi la senatrice Elena Fattori aveva una modesta notorietà, mentre gli altri erano praticamente sconosciuti sul piano nazionale e ai media. Ogni candidato ha potuto presentare se stesso con un breve testo programmatico e un breve video, ma non ci sono stati dibattiti tra i candidati né loro confronti con gli iscritti o nei media. La maggiore differenza tra la procedura dei 5 Stelle e quella della Cdu però è questa: alla votazione della Cdu hanno partecipato mille delegati delle istanze locali del partito. La votazione per eleggere il 'capo politico' del 5 Stelle, invece, venne aperta a tutti i 140mila iscritti certificati, dei quali però solo 37.442 (26%) votarono. Come anticipato dai media, Di Maio fu eletto con 30.936 voti (83%), mentre 6.486 voti (17%) andarono agli altri sei candidati.
Questo esito confermò quello delle precedenti centinaia di votazioni digitali del Movimento, nelle quali l’opzione preferita e spesso propagandata dalla centrale fu scelta sempre (tranne una volta) da più di due terzi di quel terzo di iscritti che votarono. Secondo i princìpi della centrale 5 Stelle, se queste votazioni si svolgono in internet incarnano la vera 'democrazia diretta', basata sul diritto di voto di tutti i membri di una comunità, senza intermediazione di istanze elette intermedie. Questa concezione, nota come 'digitalismo politico', è stata esplicitata anche rece temente da un alto esponente 5 Stelle, preconizzando il giorno in cui «tutti i cittadini della Repubblica potranno votare da casa ogni settimana». Nel complesso, nel confronto tra 'democrazia digitale diretta' (M5s) e 'democrazia digitale indiretta', con due livelli di votazione (Cdu), mi sembra che quest’ultima procedura, praticamente senza astensioni, sia più rappresentativa che non quella dei plebisciti diretti del 5 Stelle, con più di due terzi di non votanti. Un’altra differenza tra le prassi di Cdu e 5 Stelle è che il o la presidente del partito tedesco è stato poi il capo di governi di coalizione per anni o decenni. Il 'capo politico' del Movimento italiano, invece non è riuscito a diventare capo di governo né a designare a tale carica un membro del suo Movimento, nonostante Cdu e 5 Stelle abbiano ottenuto nelle rispettive ultime elezioni la stessa percentuale di voti (33%).
Da questo confronto delle procedure digitali dei due maggiori partiti in Europa, mi pare che la prima esperienza di congresso ed elezione digitale della Cdu sia stata condotta in un modo più professionale e con maggiori guarentigie che non le prime esperienze analoghe del M5s. Per la Cdu, quindi, mi pare che le procedure digitali abbiano piuttosto confermato e rinvigorito un partito di grande e lunga tradizione. Osservo la stessa vitalità anche in altri partiti di massa, come per esempio i Verdi tedeschi, che in ottobre hanno tenuto un congresso digitale – seguibile da chiunque in internet – per ultimare e far votare dai delegati locali il loro programma strategico ventennale, il terzo nei quarant’anni dalla fondazione. La diagnosi 5 Stelle che «i partiti sono morti» sembra quindi avere un parziale fondamento solo in Italia, dove effettivamente molti partiti sono scomparsi negli ultimi decenni, per essere sostituiti da nuove entità politiche a gestione 'privatistica'come per esempio Forza Italia o lo stesso Movimento 5 Stelle. Il secondo corollario della dottrina 5 Stelle, «i movimenti sono vivi», non può essere verificato fino a quando il Movimento non darà una chiara definizione della differenza tra partito e movimento e non dimostrerà nei fatti la sua differenza dagli altri partiti.
Per concludere, il dimezzamento del consenso subito dal M5s in due anni (secondo i sondaggi) getta qualche ombra sulla sua vitalità. La sua partecipazione a due governi di coalizione con partiti antichi e tradizionali, inoltre, contraddice le perentorie assicurazioni, fino poco prima delle elezioni del 2018, che il Movimento non avrebbe mai governato insieme ad altri partiti. Infine, assistiamo ora a una ricerca febbrile dei vertici 5 Stelle dei voti di membri o ex membri di qualunque partito per potere continuare a governare in alleanza con il successore di un partito co-erede di un altro, fondato cento anni fa: il Pci. In effetti, governare in coalizione con altri partiti e cercare di meritarsi la fiducia di parlamentari senza partito è la norma nelle democrazie. Ci si può solo rallegrare che anche l’attuale partito di maggioranza relativa lo abbia capito.