Grande Guerra. Il fuoco delle inutili stragi e i santi dimenticati
Con quest’anno 2018 si concluderà il centenario della Grande Guerra. «L’inutile strage»: la definì così Benedetto XV. Indiscutibilmente, rappresentò un bivio nella storia, materia che noi italiani amiamo poco anche quando trasforma radicalmente il nostro modo di vivere.
Lo ha sottolineato il presidente Mattarella, nel tradizionale messaggio a reti unificate, rammentandoci che è «il centenario della vittoria», ma anche e soprattutto della «fine delle immani sofferenze provocate da quel conflitto».
Le patrie memorie non conservano molte vittorie da celebrare, e forse questa è la ragione per cui del 1915-18 ricordiamo Caporetto, le decimazioni, le cariche alla baionetta e i gas asfissianti, ma in genere assai meno il proclama del 4 novembre attribuito ad Armando Diaz. Qualcuno sostiene che tanta freddezza dipenda dal fatto che non fu, almeno per noi italiani, il primo conflitto mondiale bensì la quarta guerra d’indipendenza, con la quale conquistammo Trento e le terre irredente.
Sotto questa luce si capirebbe anche perché, nello story-telling ufficiale del ’15-18, esattamente come in quello che ha celebrato i 150 anni dell’Unità italiana, il ruolo dei cattolici tenda a scomparire, violentando, se non l’accuratezza storiografica, quell’afflato unitario, quella tensione civile, quella voglia e (visti i tempi che corrono) quel bisogno di essere patria che risuona ogni 31 dicembre nelle parole del primo cittadino della Repubblica e che è tornato con sobria pregnanza nel discorso di Sergio Mattarella.
Il presidente ha ricordato che un filo rosso lega i diciottenni di allora e quelli di oggi, i «ragazzi del ’99» che «vennero mandati in guerra, nelle trincee» e quelli che in marzo si recheranno per la prima volta alle urne. Questo filo rosso sangue – è il senso del richiamo presidenziale – ci lega tutti in un’unica trama di pace. Cattolici e no, verrebbe da aggiungere.
E infatti, oltre alle migliaia di anonimi credenti, sterminati nelle opposte trincee, la Grande Guerra ci regalò anche due santi, semidimenticati dalle commemorazioni ufficiali: il beato Carlo I d’Asburgo e san Riccardo Pampuri.
Il primo, successore dell’imperatore d’Austria Francesco Giuseppe nel novembre del 1916, si adoperò per la fine della guerra, secondo la linea del Papa. Al termine del conflitto fu esiliato e morì povero. Il secondo, prima di diventare frate nell’Ordine dei Fatebenefratelli e vivere una vita di servizio ai malati, divenne un eroe salvando un ospedale da campo del Regio esercito. Trascinò il materiale sanitario indispensabile per curare i feriti sotto ventiquattr’ore di pioggia battente, rimediando una pleurite e una medaglia di bronzo al valore militare; l’unica, a quel che si sa, che fu appuntata sul petto di un santo.
In quegli anni nemmeno le virtù dei santi bastarono a evitare che il mondo civile si riducesse, come paventava il Papa, «a un campo di morte». Tuttavia, dopo di allora, i cattolici continuarono e tuttora continuano ad adoperarsi sui diversi teatri di guerra perché, come chiedeva Benedetto XV, «sottentri alla forza materiale delle armi la forza morale del diritto». L’appello resta attuale, mentre il mondo vive una terza guerra mondiale 'combattuta a pezzi', come ha denunciato papa Francesco, nella quale i cattolici ingaggiano una loro battaglia tesa a far prevalere il diritto dell’umanità a sopravvivere.
Lo fanno salvando naufraghi e partendo missionari, distribuendo pasti caldi e suturando ferite. Con la divisa e sotto le bandiere delle Ong. Spesso, con ospedali da campo improvvisati, rischiando la vita. Non sempre ricevono una medaglia, anzi, questo genere di eroismo non viene mai citato nei libri di storia. Al massimo, lo trovate in qualche nota a margine.