«Fine vita» tra fede e ragione. Né assistenza al suicidio, né apertura all'eutanasia
Caro direttore,
è innegabile che la medicina odierna abbia mutato profondamente le condizioni di vita dei pazienti in situazioni estreme. La possibilità di trovarsi in gravi sofferenze e senza alcuna prospettiva di recupero per lunghi e dolorosi periodi di tempo, costantemente legati a tecnologie di supporto vitale, è per molte persone un incubo che vorrebbero evitare. A questa previsione ha in realtà posto parziale rimedio la legge 219 del 2017 sulle Disposizioni anticipate di trattamento (Dat), attraverso le quali la persona capace di intendere e di volere può dichiarare anticipatamente il proprio rifiuto di queste cure. Manca però il chiarimento normativo della situazione in cui la persona è sottoposta a trattamento salvavita in una condizione di malattia irreversibile e l’interruzione delle cure comporta inevitabilmente una sedazione terminale.
La Corte costituzionale, a mio giudizio, è intervenuta opportunamente, perché il vuoto legislativo, non colmato dal Parlamento in ben un anno di tempo, riguarda un’area in cui le categorie su cui si basa attualmente il diritto (e specificamente l’art. 580 del codice penale, che non distingue fra aiuto e istigazione al suicidio) non riescono a coprire con chiarezza i casi generati dalla medicina recente. La Corte ha posto alcune condizioni entro le quali l’aiuto al suicidio non configurerebbe un reato e con ciò ha aperto alla necessità di una nuova e più precisa legislazione in merito. La via d’uscita da questa impasse non va però cercata in una legislazione sull’eutanasia.
Ciò che è in gioco è propriamente stabilire una differenza giuridicamente rilevante fra l’aiuto alla terminazione delle cure salvavita e l’aiuto al suicidio. La terminazione delle cure in condizioni di grave sofferenza, di consapevolezza, di irreversibilità e di richiesta competente, anche quando coadiuvata dalla sedazione terminale, non è equiparabile all’aiuto e men che meno all’istigazione al suicidio: l’aiuto medico va nel senso di consentire la terminazione di cure che prolungano uno stato irreversibile e di lento progressivo decadimento, rifiutate dal paziente. Questi non chiede di essere aiutato a suicidarsi, bensì di essere lasciato morire in condizioni controllate, che riducano la sofferenza del passaggio dalla vita alla morte. Dunque, questa situazione non può essere equiparata all’aiuto al suicidio. D’altra parte, questo processo non è l’eutanasia, che è un’uccisione attiva del paziente e che, come è successo in alcuni dei Paesi in cui è stata legalizzata, arriva a prescindere dalle condizioni del paziente, sia esso terminale o semplicemente depresso o in condizioni non gravi o addirittura minore.
È per questo che è di somma importanza tracciare una distinzione chiara e netta fra aiuto alla terminazione delle cure, che va legittimata date le condizioni indicate dalla Corte, e da un lato l’aiuto al suicidio e dall’altro l’eutanasia, che continuano a essere illegittime. A questo punto, infatti, se il legislatore non intervenisse si aprirebbe una deriva pericolosa che potrebbe portare alla legalizzazione di un’eutanasia priva di regole e dunque esposta ad abusi.
Filosofo, Università Vita-Salute San Raffaele, Milano