Opinioni

Dalla Nigeria al Kenya. Il filo rosso dell'odio

Fabio Carminati martedì 3 luglio 2012
C’è un filo rosso come il sangue che lega il Kenya, la Nigeria e il Maghreb. Un filo tessuto dagli strateghi di morte dell’ideologia fondamentalista islamica che hanno identificato da tempo nell’Africa il loro nuovo e vero campo di battaglia.E questo per un elemento principale e uno secondario. Prima di tutto, perché il Continente – dimenticato dall’Occidente, salvo ricordarsene quando ci sono in ballo corposi interessi – offre giganteschi spazi di manovra (e resistenze quasi nulle) ai predicatori della “guerra santa”; l’Africa infatti concede una possibilità di penetrazione nelle sue società con progressioni geometriche rispetto a quanto accade in Occidente (obiettivamente più difficile da colonizzare).L’elemento secondario, naturalmente solo dal punto di vista strategico, è quello degli obiettivi. Partiamo da alcuni esempi. Tre giorni fa nel campo profughi di Dadaab in Kenya (il più grande del mondo, che ospita profughi provenienti dalla vicina Somalia), un commando di shabaab ha ucciso due persone e sequestrato quattro occidentali liberati solo ieri. Non è bastato per «finire sui giornali». Ancora qualche giorno prima, durante la partita del Campionato europeo Italia-Inghilterra, sempre in Kenya e sempre a opera degli shabaab, è stata consumata una strage in un locale pubblico: anche questa tra l’indifferenza generale dei media non africani. Il duplice raid di domenica a Garissa ha fatto invece notizia.Nessuno ormai può fingere di non rendersi conto che tra gli shabaab, i Boko Haram nigeriani e al-Qaeda per il Maghreb islamico, è stato stretto da tempo un patto qaedista di sangue: con obiettivi diversi, risultati per certi versi simili, ma con un format comune da sfruttare. E cioè: dimostrare il proprio peso logistico-militare colpendo bersagli che in Occidente facciano rumore. Come, mesi fa, la sede delle Nazioni Unite ad Abuja in Nigeria o (è triste dirlo) le comunità cristiane riunite in preghiera.Tre domeniche di attacchi consecutivi in Nigeria hanno fatto più sensazione delle oltre mille vittime che la setta fondamentalista islamica ha provocato negli ultimi due anni. È perciò più facile colpire i cristiani – perché sono meno difesi, e sono spesso minoranza – ed è più “remunerativo” (ovviamente nell’ottica farneticante dei vertici del terrore internazionale).Gli americani da tempo l’hanno capito e un capitolo della “guerra segreta” che Obama (tra mille critiche) sta combattendo nel Corno d’Africa è dedicato proprio a questo. L’Italia da anni ha lanciato l’allarme, segnalando che la vera minaccia nasce proprio dal confine meridionale del Sahara, ma solo nell’ultima riunione del Consiglio ministeriale Esteri la preoccupazione è riuscita a fare breccia nel sonnolento consesso dei Paesi dell’Unione Europea. Molti, adesso, parlano apertamente della troppo a lungo negata «persecuzione dei cristiani». Purtroppo a ragione, nel caso delle angherie che pressoché quotidianamente la minoranza cattolica e di altre denominazioni subisce, per esempio, nella complessa (e, spesso, drammatica) situazione del Pakistan. Ma per altre realtà servono analisi più raffinate. I vescovi nigeriani hanno infatti ribadito più volte che nel loro Paese non si è al cospetto di «persecuzioni» mirate o esattamente di una «guerra di religione», ma di strategie per intaccare il potere costituito e costruirne uno alternativo. Le vittime cristiane sono «il mezzo e non il fine» dell’azione terroristica. Anche se l’elemento religioso fondamentalista è certo base e alimento dell’offensiva.Il Kenya in questa fase rischia – proprio per quell’osmosi di tecniche e ideologia che caratterizza il “giovane” terrorismo africano di matrice islamica – di scoprirlo sulla pelle del suo popolo. Così come aveva scoperto – assieme alla Tanzania, con gli attentati del 1998 alle ambasciate americane – di essere stato il Paese in cui al-Qaeda mise in atto la prova generale dell’11 settembre 2001.