A 30 anni dall’uscita. Il fascino di "Pretty woman" e la speranza del lieto fine
Cosa c’è dietro l’imperituro fascino di 'Pretty Woman'? Qual è il segreto di una pellicola del 1990 che nonostante le 30 repliche sul piccolo schermo (una all’anno, una certezza), l’altra sera ha incollato su Rai1 3 milioni e 352 mila telespettatori, con uno share del 21.90%? Qualcuno potrà criticare certa ripetitività dei palinsesti Rai, ma è un fatto che la vecchia cara televisione di Stato non ha sbagliato a rimandare in onda un film di cui moltissimi spettatori conoscono a memoria le battute - irresistibile la scena della giovane Vivian che, snobbata dapprima per il suo aspetto volgare da una lussuosa boutique sulla Rodeo Drive di Beverly Hills, ritorna poi sventolando decine di sacchetti di grandi firme e alla commessa schizzinosa dice: 'Lei è pagata a percentuale? Sì? Grande errore. Grandissimo' (mandarmi via, ndr). 'Pretty Woman' è una specie di usato sicuro, insomma, un grande classico a cui il pubblico non riesce a resistere, malgrado la competizione delle serie tv e dei film delle pay-tv. Il trentennale successo di pubblico televisivo della commedia di Garry Marshall ha diver- se spiegazioni.
Per le spettatrici c’è il fascino indiscutibile di un Edward Levis-Richard Gere al massimo del suo incantesimo. Per gli spettatori c’è la prorompente vitalità di una Vivian Ward-Julia Roberts - giovane e sfrenata come mai più. C’è poi l’eterna e universale favola di Cenerentola e del principe azzurro, che non perde mai il suo potente messaggio. La ragazza emarginata che da un giorno all’altro sperimenta una vita da sogno, sottobraccio al suo cavaliere e 'salvatore': sorvoli degli States in jet privato, la 'Traviata' a teatro in rosso Valentino, collier di diamanti e rubini al collo...
Una vita che non è la sua, effimera come il ballo di mezzanotte della protagonista della favola di Charles Perrault, ma con tutta la potenza di un sogno che diventa realtà. Eppure 'Pretty Woman' non è un solo una commedia romantica a lieto fine (senza paura di spoilerare, dato che il film non ha più segreti per nessuno, è memorabile la scena in cui il principe azzurro suona il clacson della fuoriserie, e in doppio petto grigio e un mazzo di rose rosse in mano si arrampica sulle scale antincendio per raggiungere la sua Cenerentola), ma è anche una pellicola sulla prostituzione ferocemente criticato dalle femministe di tutto il mondo. In 'Il mito Pretty Woman' (2019) la giornalista e studiosa britannica Julie Bindel spiega che le donne sopravvissute alla prostituzione raccontano tutta un’altra storia rispetto a quella vissuta da Vivian.
Nella realtà non si incontrano milionari spietati, ma in fondo gentili e affascinanti come Richard Gere, bensì energumeni che pagano una tariffa per esercitare violenza e sopraffazione. «Non c’è glamour per le donne che vendono sesso, solo danno», scrive Bindel, e l’immagine della «prostituta felice» è solo una crudele operazione di falsificazione della realtà a opera della potente lobby del sesso a pagamento, che comprende «proprietari di bordelli, agenzie di escort e compratori di corpi femminili». Un mito, appunto, che copre uno spaventoso sfruttamento.
Tutto vero. Ma, a guardare il bicchiere mezzo pieno, la Vivian che nella prima metà del film è una ragazza di strada senza prospettive, pian piano si trasforma, in lei cresce il desiderio di diventare una persona diversa, di sottrarsi agli appetiti degli altri per scoprire la propria vocazione. Insieme a lei cambia anche Edward: da spietato finanziere che con i soldi pensa di poter comprare tutto, a uomo che fa i conti con la propria aridità per far spazio ai sentimenti. Ed ecco, infine, perché 'Pretty Woman' non smette di affascinare: perché ci fa credere che un finale diverso è sempre possibile. Come ogni favola che si rispetti.