Opinioni

Il carabiniere ucciso. Giustizia giusta, una foto stride ed è più difficile

Mario Chiavario martedì 30 luglio 2019

Una foto sta facendo il giro del mondo, rischiando di sovrapporsi, sino a mandarle in secondo piano, alle immagini che testimoniano della vita e della morte del vicebrigadiere dei carabinieri Mario Cerciello Rega, sacrificata fino all’estremo al servizio dello Stato. È la foto che ritrae uno dei due fermati per l’assassinio, ammanettato e con gli occhi bendati. Era doveroso, per i più alti responsabili dell’Arma, reagire con fermezza all’episodio, subito definito inaccettabile: è bensì vero, infatti, che lo stillicidio di aggressioni sanguinose alle forze dell’ordine hanno contribuito a creare, tra i loro appartenenti, comprensibili sentimenti di reazione, che le rituali manifestazioni di solidarietà non valgono a lenire; ma è giustamente maturata la convinzione che non si possono tollerare comportamenti i quali vadano contro i più elementari princìpi dell’etica, prima ancora che della civiltà giuridica.

Certo, tutto andrà chiarito fino in fondo e senza pregiudizi, non solo sulla dinamica della vicenda delittuosa che è costata la vita al carabiniere, ma anche su questo 'seguito' che può perfino rischiare di compromettere il buon esito delle indagini avviate sull’omicidio. Non è indifferente l’accertamento del 'come' e del 'quanto' si sia protratta la situazione documentata da quello scatto; e si è anche potuto ipotizzare che, in definitiva, ne risultasse pregiudicato lo stesso valore di prova di dichiarazioni autoaccusatorie o accusatorie rilasciate, prima o dopo, da chi veniva così ritratto: il codice di procedura penale (articolo 191) sancisce infatti l’«inutilizzabilità» di quanto gli inquirenti raccolgano se lo fanno in violazione di divieti di legge, tra i quali campeggia quello di non usare metodi o tecniche lesive della libertà morale delle persone (articolo 188). Da questo punto di vista suonano largamente rassicuranti le parole del procuratore generale di Roma, Giovanni Salvi, che, non senza stigmatizzare severamente l’accaduto, assicura di aver comunque constatato, dopo attento controllo, legalità e correttezza della conduzione dell’interrogatorio dei fermati a opera del pubblico ministero.

Però, non è solo questione di capire se e quanto le difese degli imputati potranno avvalersi di quella foto per intaccare davanti ai giudici l’impianto delle accuse contro i loro assistiti. Sono impegni a più alto livello e a raggio più ampio quelli che discendono dall’art. 13 della Costituzione («è punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà») e dall’art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (che in una proibizione assoluta accomuna alla tortura tutte le pene e i «trattamenti inumani o degradanti»).

E come si fa a non considerare violenza morale e trattamento degradante una benda sugli occhi e l’imposizione delle manette in un contesto come quello, nel quale non si riesce a cogliere, quand’anche si fosse posta in un momento precedente, alcun’esigenza di tutela della segretezza né di impedimento a tentativi di fuga o di violenza da parte dei fermati? Tuttavia, se va reso omaggio all’Arma per una presa di distanze che può non essere indolore al suo interno, affiora un motivo di amarezza e di preoccupazione su altri versanti. Episodi come questo parrebbero esemplari per raccogliere un’unanime condanna, sul piano morale, dei cedimenti alla logica del 'tutto è permesso' quando si ha a che fare con dei criminali; e semmai per indurre a dimostrare nei fatti che quella condanna non significa indulgenza per chi ammazza o commette altri atti di grave violenza, ma impone soltanto che alla barbarie non si risponda con un’altra barbarie e non si trasformi la giustizia in vendetta, privata o pubblica.

E invece sembra tramontare tristemente in questa stagione italiana la speranza di vedere coese, nel rifiuto di quella logica, la grande maggioranza del corpo sociale e le istituzioni chiamate a rappresentarlo. Ci si sta abituando a sentir ripetere parole come «bestie» o «bastardi » per definire delle persone, con auguri di vederle «marcire in galera»: così, se qualcuno si sente autorizzato ad eccedere nei ... complimenti (non solo verbali) quando ha sottomano qualcuno di loro, sono quisquilie di cui non val la pena occuparsi. Per una volta è rimasto sullo sfondo il tentativo di rovesciare epiteti e maledizioni sui 'soliti' africani, subito bollati, sull’onda delle prime indiscrezioni, come responsabili dell’omicidio; ma non illudiamoci: a far mettere presto la sordina sul ritornello e a suggerire precipitose retromarce è stata unicamente l’apprezzabile celerità di una svolta nelle indagini.

Giurista, Università di Torino