Il caso egiziano. Il dovere di difendere le libertà limitate da affari e convenienze
Quando sette anni fa un uomo dal petto coronato di medaglie cominciò ripetutamente a reclamare in televisione una sorta di viatico morale per attuare la feroce repressione contro quello che aveva definito «il terrorismo e la violenza di chi vuole disgregare il Paese», l’Egitto provò a credere a quel generale di fanteria meccanizzata cresciuto sotto l’ala di Hosni Mubarak e successivamente divenuto capo di stato maggiore e direttore dell’intelligence con l’improvvido Mohammed Morsi. Quell’uomo era Abdel Fatah al-Sisi e prometteva una svolta, eliminando i feloul (letteralmente: “gli avanzi”) del passato regime e insieme quelli del nuovo, quell’impasto di integralismo e di fratellanza musulmana che aveva portato il Paese al collasso.
Nessuno sapeva che in quel torrido luglio in cui Morsi fu deposto sarebbe iniziato il cammino che avrebbe portato alla dittatura personale di al-Sisi. Le sanguinose epurazioni, i processi sommari, l’incarcerazione di migliaia di avversari politici parvero l’inevitabile pedaggio da pagare a un regime change che come contropartita offriva stabilità politica e interna e rassicurazioni geopolitiche a nemici ed alleati. L’Egitto – questa era considerazione comune – era troppo importante, troppo strategico perché si tramutasse in una terra di anarchia e di disordini come la vicina Libia. Era o non era il bastione occidentale nell’area nordafricana? E non era forse la miglior garanzia per le frontiere occidentali di Israele, cui era legato dagli accordi di Camp David?
Americani, inglesi, francesi, potenze europee e da ultimo anche l’Italia convenivano nella necessità di mettere ordine in quel Paese in forte espansione economica, ma traviato dall’inefficienza e dall’incapacità dei Fratelli Musulmani, che pure avevano vinto le prime e uniche elezioni democratiche. Con il rischio di farlo cadere in grembo ai russi (che già manifestavano significativi appetiti e una comprovata nostalgia degli anni d’oro in cui il presidente Nasser li portava in palmo di mano) o nelle vischiose lusinghe economiche degli Emirati del Golfo.
Il golpe bianco di al-Sisi portò la casta militare ad essere sostanzialmente padrona del Paese. La crescita economica (un 5,6% record nel 2018), una delle più alte fra i Paesi emergenti, il tasso di disoccupazione al 7,5% hanno solo in parte compensato la drastica percentuale di cittadini (quasi il 30%) che vivono al disotto della soglia di povertà, nonostante la scoperta di ricchi lotti petroliferi e il notevole boom dell’industria manifatturiera. Ma nonostante ciò una non piccola porzione della classe media egiziana approva l’operato di al-Sisi. È il patto fallace che coniuga rinuncia alla libertà in cambio di sicurezza.
Non per nulla c’è una cosa, un requisito-chiave di ogni democrazia degna di questo nome che in Egitto è del tutto introvabile. Ed è il rispetto dei diritti umani. Non occorre rammentare la tragica morte di Giulio Regeni e la più recente vicenda dello studente Patrick Zaky per confermarlo: per noi italiani essi sono soltanto le più note fra le vittime della sterminata fila di cittadini senza nome, senza speranza, senza giustizia, svaniti, incarcerati, soppressi, annientati dalla macchina della repressione che non conosce soste, che è sorda, cieca e indifferente a ogni appello, come le reiterate proteste, le pressioni, gli inviti internazionali hanno finora dimostrato. Tranne a uno, di quei richiami: il ricco business degli armamenti. Lo stesso cui Obama a suo tempo non si sentì di rinunciare quando si concretizzò il colpo di Stato di al-Sisi; lo stesso al quale non rinuncia oggi Emmanuel Macron, che nel ricevere il presidente egiziano in pompa magna all’Eliseo precisa – con una capriola semantica degna del Tartuffe di Molière – «abbiamo disaccordi, ma non vogliamo subordinare la nostra cooperazione in materia di difesa, come in materia economica, a questi disaccordi».
Noi stessi italiani ci turiamo il naso – e anche la coscienza – nel momento in cui dobbiamo consegnare la ricca commessa da 1,2 miliardi di euro all’Egitto (due fregate per la marina militare). E pazienza se a cinque anni dalla morte di Regeni e una serie indicibile di ostacoli legali e giudiziari si celebreranno due processi, uno vero (in Italia) e uno finto (all’ombra delle piramidi). Fragili e disarmati, i diritti umani soccombono spesso sotto il peso degli affari e delle convenienze strategiche. Ma questo significa solo che non possiamo smettere di batterci fino all’ultimo perché anche l’ultimo satrapo sia messo in condizione di rispettarli.