Ha ragione Sergio Marchionne a sostenere che «di soli diritti si muore. Sono sacrosanti, vanno tutelati, ma dobbiamo tornare ad un sano senso del dovere, consapevoli che per avere bisogna anche dare». Così come non sbaglia a sollecitare il «rispetto del primato della produzione», se vogliamo che l’Italia resti un grande Paese manifatturiero, in grado di assicurare lavoro e benessere a tanta parte dei cittadini. Mentre molti, da fuori, scommettono contro il nostro Paese, infatti, è fondamentale che noi per primi – imprese, forze sociali e politiche – siamo pronti a puntare risorse ideali e materiali sul nostro futuro produttivo.Nel suo intervento di ieri alla Sevel di Atessa, però, l’amministratore delegato della Fiat ancora una volta ha mancato l’approdo finale della riflessione. Compiere il proprio dovere non basta a fare di un lavoratore un "bravo lavoratore" se gli sfugge il "senso" di ciò che fa. Mentre un dipendente consapevole, che si sente coinvolto nella missione alla quale partecipa, è pronto a fare assai più del suo dovere. Va spontaneamente oltre la mera logica del dare e dell’avere.È la differenza che passa tra due operai intenti a cavare e dividere un blocco di marmo, al quale un passante chiede cosa stiano facendo. Il primo risponde: «Non lo vedi? Spacco pietre». Il secondo alza il braccio a indicare un punto più lontano e spiega: «Io costruisco cattedrali». Allo stesso modo, non basta affermare il primato della produzione, se non si considera il "come" e il "perché" si produce. E in definitiva è stato questo non riuscire a trasmettere il senso ultimo dell’impresa, di una "intrapresa comune", che ha finito per dividere i lavoratori, i sindacati, la politica, perfino i magistrati e gli stessi cittadini in due fazioni: guelfi e ghibellini, pro o contro Fiat. Che costringe oggi un gruppo – che pure ha triplicato i ricavi, raddoppiato i dipendenti (nel mondo, in Italia no) e rafforzato in maniera significativa la sua presenza internazionale – a doversi difendere a ogni pie’ sospinto, mentre è inseguito da cause su cause in tribunale e arriva a scambiare la solidarietà umana di un vescovo con un sostegno politico o peggio un boicottaggio. Davvero difficile da credere.Chiariamo: gli errori e gli irrigidimenti ingiustificati non stanno solo di casa alla Fiat. Tutt’altro. La Fiom ha avuto fin dall’inizio un atteggiamento miope, ha interpretato il suo ruolo più come blocco di potere che non come organizzazione a difesa degli interessi reali dei lavoratori (mentre Cisl e Uil si assumevano responsabilità e sopportavano attacchi di ogni tipo). Così come va ribadito (lo abbiamo scritto dal primo giorno) che non è stata la Fiat ad adottare comportamenti incostituzionali. Piuttosto, è la Corte costituzionale, con il suo ultimo pronunciamento, ad aver cambiato orientamento e giurisprudenza rispetto alla regolazione della rappresentanza, così come emersa dal referendum del ’95 sullo Statuto, voluto proprio dalla sinistra e dalla Fiom. E infatti nessuno aveva gridato allo scandalo quando la Consulta nel ’96, con la sentenza 244, aveva ritenuto legittimo addirittura il disconoscimento delle Rsa costituite in precedenza dai sindacati non firmatari di contratti (in quel caso Cobas e Flmu).Proprio perché torti e ragioni non stanno tutti da una parte, però, è ancora più necessario cogliere questa occasione per azzerare il conflitto e compiere un deciso passo avanti. Dando per assodate le intese sugli stabilimenti, votate e approvate dalla maggioranza dei lavoratori, ma nel contempo riammettendo la Fiom a una piena rappresentanza e agibilità sindacale nelle fabbriche. Marchionne ieri ha chiesto «regole certe», in mancanza delle quali non sarebbero più assicurati gli investimenti programmati nel nostro Paese. In prospettiva arriverà una legge a dare certezze. Ma il terreno per incontrarsi e scambiarsi un affidamento significativo – con diritti e doveri esigibili – è già disponibile se si parte dall’accordo sulla rappresentanza sindacale firmato da Cgil, Cisl, Uil e Confindustria.Il «primato della produzione», infatti, è relativo e non può essere ricostituito se non basandosi su un altro primato, questa volta assoluto: quello di un bene comune che si costruisce solo insieme.