Opinioni

Il discorso del Papa alla Curia. Nuove mappe per portare la Notizia di Cristo al mondo

Giuseppe Lorizio sabato 21 dicembre 2019

La proposta che papa Francesco faticosamente, ma decisamente, sta portando avanti nella Chiesa ha alle spalle una chiara visione teologica, che emerge in tutta la sua profondità nel discorso rivolto quest’anno ai membri della Curia romana.
La prima citazione il Papa l’ha voluta riservare a un monaco mistico, copto-ortodosso del secolo scorso, Matta el Meskin, che legge il Natale nell’orizzonte dell’alleanza di Dio con l’umanità. Si è quindi rivolto ai Padri, con una bella citazione di Clemente Alessandrino. E mistica e patristica lo hanno condotto al pensiero del grande teologo, cardinale, ora santo, John Henry Newman, e alla sua fondamentale opera "Lo sviluppo della dottrina cristiana", pubblicata nel 1845, nel momento del passaggio dell’Autore dalla Chiesa anglicana a quella cattolica. Da qui lo stimolo a considerare la riforma innanzitutto come «conversione» della mente e del cuore e successivamente come rinnovamento delle strutture e delle impalcature ecclesiali. La dimensione dottrinale della fede viene quindi considerata nella sua fondamentale dinamica: «Vivere è cambiare».

Tale conversione non è una rivoluzione. Con intelligente e acuta scelta, papa Francesco ha voluto citare la famosa espressione del "Gattopardo" di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, secondo la quale «per non cambiare nulla bisogna cambiare tutto», aggiungendo che non si tratta di ripartire da zero con un reset di quanto il passato ha costruito, ma di radicarsi nel passato, per vivere il presente e immaginare il futuro. Le rivoluzioni hanno prodotto indicibili e nefaste violenze. I pilastri su cui l’autentica riforma deve poggiare vengono così indicati nei due poli dell’evangelizzazione e dell’attenzione all’integralità dell’umano. «Evangelizzazione e promozione umana», secondo il binomio della Chiesa italiana (1976). La conversione dovrà quindi innanzitutto rivolgersi alla Parola di Dio, da annunciare e comunicare alle donne e agli uomini del nostro tempo, ma dovrà anche configurarsi come una vera e propria «conversione antropologica». E vengono in mente le parole col quale il beato Antonio Rosmini apriva la sua opera più nota "Delle cinque piaghe della santa Chiesa", affermando che il Vangelo si rivolge a tutti gli uomini e a tutto l’uomo.

Questa visione prospettica chiama in causa strutture, già consolidate nell’istituzione ecclesiale, quali la Congregazione per la dottrina della fede e quella per l’Evangelizzazione dei popoli. A tal proposito il Papa ricorda che il contesto storico in cui sono nati tali dicasteri non coincide affatto con quello attuale. Mentre allora si trattava di evangelizzare i non ancora credenti, ora siamo di fronte non solo a chi non crede ancora, ma anche a coloro che non credono più (il post-cristianesimo). A braccio ha aggiunto che Paesi dai quali in passato sono partiti stormi di missionari, ora soffrono per la mancanza delle vocazioni. Papa Francesco ha sottolineato con vigore che «non siamo nella Cristianità, non più!».
Un ripensamento radicale dunque si impone, in particolare considerando la dottrina non come fine, ma come funzionale all’evangelizzazione e a essa destinata, nella sua dinamicità, con particolare riferimento, data anche la sua esperienza di pastore-vescovo, alle grandi città, dove «abbiamo bisogno di altre "mappe", di altri paradigmi, che ci aiutino a riposizionare i nostri modi di pensare e i nostri atteggiamenti». Questo polo fondamentalmente missionario chiama in causa nuove strutture, quali il dicastero della Comunicazione e quello per la Nuova evangelizzazione. E, a proposito della dimensione comunicativa, il Papa sottolinea come non si tratti solo di strumenti e di tecnologie, più o meno sofisticate, ma di un vero e proprio habitat o «areopago culturale», secondo la felice espressione del direttorio della Chiesa italiana su «Comunicazione e missione».

Il polo "antropologico" fa riferimento al dicastero per il Servizio dello sviluppo umano integrale, nel quale sono confluite altre strutture precedenti e che è chiamato, come recita il Motu proprio, con cui gli si è data vita «a servire i più deboli ed emarginati, in particolare i migranti forzati, che rappresentano in questo momento un grido nel deserto della nostra umanità. La Chiesa è chiamata a testimoniare che per Dio nessuno è "straniero" o "escluso". È chiamata a svegliare le coscienze assopite nell’indifferenza dinanzi alla realtà del Mar Mediterraneo divenuto per molti, troppi, un cimitero».
Con una meditata inclusione, in cui rivive il riferimento a Newman, che scriveva più di 150 anni or sono, papa Francesco conclude citando il cardinal Martini, che, nella sua ultima intervista denunciava la paura di una Chiesa, «indietro di duecento anni», spronandola a rinnovarsi, alla luce del Vangelo, nella fiducia e nella speranza.