Migranti. Il diritto penale non è la soluzione per evitare tragedie come a Cutro
Croci realizzate con i resti del barcone naufragato a Steccato di Cutro
Nel Consiglio dei Ministri che si è tenuto a Cutro il 9 marzo, è stato approvato un decreto-legge in materia di immigrazione finalizzato a rafforzare gli strumenti di contrasto ai flussi migratori illegali e all’azione delle reti criminali che operano la tratta di esseri umani e a semplificare le procedure per l’accesso, attraverso canali legali, dei migranti qualificati. Tra le principali innovazioni del decreto, vi è l’introduzione del nuovo reato di «morte o lesioni come conseguenza di delitti in materia di immigrazione clandestina» che prevede – precisa sempre il comunicato stampa – la pena da 10 a 20 anni per lesioni gravi o gravissime a una o più persone, da 15 a 24 anni per morte di una persona e da 20 a 30 anni per la morte di più persone. Nel corso della successiva conferenza stampa, la presidente del Consiglio Meloni ha precisato i perimetri della nuova fattispecie, chiarendo che, trattandosi di «reato universale», lo stesso «verrà perseguito dall’Italia anche se commesso al di fuori dai confini nazionali» al fine di colpire «non solo i trafficanti trovati sulle barche, ma anche i trafficanti che ci sono dietro». In altri termini, l’impegno del Governo è quello di «cercare gli “scafisti” lungo tutto il globo terracqueo».
Nella medesima conferenza stampa è poi intervenuto anche il ministro Nordio, il quale ha precisato come l’intervento in sede penale veda come destinatari non solo gli “scafisti”, ma anche chi promuove, organizza e finanzia questa tratta. Quanto all’allargamento della giurisdizione penale dello Stato italiano, il ministro ha chiarito anche che, se la condotta è diretta a procurare l’ingresso illegale nel territorio dello Stato, il reato è punito secondo la legge italiana anche quando la morte o le lesioni si verifichino al di fuori di tale territorio. Così riepilogate le intenzioni del Governo, ci si deve interrogare sulla ragionevolezza e sull’opportunità dell’ennesimo intervento in sede penale. Diversi i profili problematici, già messi in evidenza da costituzionalisti e penalisti. Il primo attiene alla natura “universale” del nuovo reato. Al di là delle buone intenzioni, ciò che desta perplessità – e che è stato ben evidenziato dalle parole del ministro Nordio – è la premessa su cui poggia l’allargamento di giurisdizione, ossia la circostanza tale per cui, fermo restando l’art. 6 del nostro codice penale (secondo il quale «il reato si considera commesso nel territorio dello Stato, quando l’azione o l’omissione, che lo costituisce, è ivi avvenuta in tutto o in parte, ovvero si è ivi verificato l’evento che è la conseguenza dell’azione od omissione»), perché la condotta possa essere perseguita, è necessario che la stessa sia «diretta a procurare l’ingresso illegale nel territorio dello Stato».
Occorrerà, in altri termini, la prova certa – non facile da ottenere – che, prima ancora che l’imbarcazione sia entrata in acque di giurisdizione italiana, la stessa fosse inequivocabilmente diretta in Italia. Il secondo (e più serio) profilo problematico – anch’esso già evidenziato – attiene ai destinatari delle gravi sanzioni previste nella nuova disposizione. Quest’ultima, riprendendo la stessa formulazione prevista nel reato – già presente nel nostro ordinamento e già punito con pene molto severe – di cui all’art. 12 d. lgs. 286/1998, si rivolge a chi «promuove, dirige, organizza, finanzia o effettua il trasporto di stranieri ovvero compie altri atti diretti a procurane illegalmente l’ingresso nel territorio dello Stato». Se questa è la condotta, la novità risiede nell’aver previsto un notevole aggravio della risposta punitiva (che potrà arrivare fino a 30 anni di reclusione) qualora, come conseguenza non voluta di una condotta già penalmente sanzionata, si verifichino la morte o le lesioni (gravi o gravissime) di una o più delle persone trasportate. Da qui, la rubrica del nuovo reato quale morte o lesioni «come conseguenza di» delitti in materia di immigrazione irregolare.
Sorge, dunque, una domanda: la nuova norma si applica agli scafisti o ai trafficanti? Ma, soprattutto, vi è una differenza tra queste due nozioni? Più agevole la risposta alla seconda domanda, essendo noto a tutti che il “trafficante” (inteso come colui che, tenendosi ben lontano da qualunque imbarcazione, organizza ma, soprattutto, lucra sul traffico di esseri umani) ben poco ha a che vedere con lo “scafista” (inteso come colui che, materialmente, si trova a guidare l’imbarcazione). Questo a meno di non ritenere che, in realtà, anche per “scafista” si debba intendere colui che si limiti ad organizzare la traversata (senza poi prenderne parte), ma in tal caso non si coglierebbe la distinzione tra le due nozioni. A conferma di quanto appena detto, si veda, ad esempio, quanto dichiarato da Carmelo Zuccaro (Procuratore di Catania) presso il Comitato Parlamentare di controllo sull’attuazione dell’Accordo di Schengen, di vigilanza sull’attività di Europol, di controllo e vigilanza in materia di immigrazione nel Marzo 2017: «Noi stiamo constatando che, effettivamente, i barconi su cui questi migranti vengono fatti salire sono sempre più inadeguati al loro scopo, sempre più inidonei. Le persone che si pongono alla guida di questi barconi sono sempre più inidonee. Ormai, non sono più appartenenti, sia pure a livello basso, all’organizzazione del traffico. Stiamo parlando di persone che vengono scelte all’ultimo momento tra gli stessi migranti, a cui viene data in mano una bussola, quando viene loro data, un telefono satellitare, quando viene loro dato, e si dice loro di seguire una determinata rotta, che tanto prima o poi è certo che li soccorrerà una Ong».
Ancora, a conferma del fatto che l’equazione “guidatore uguale scafista uguale trafficante” non possa essere presa per buona, si veda quel nutrito e recente filone giurisprudenziale secondo cui non è punibile il materiale conducente dell’imbarcazione che sia stato obbligato, con violenza o minaccia, dai reali organizzatori della traversata illegale a porsi alla guida del natante carico di migranti. Con ciò non si vuole dire che gli scafisti, intesi in questa accezione, non debbano essere perseguiti – lo sono e anche con pene molto severe – ma solo che gli stessi, che non sempre coincidono con i veri trafficanti, non sono altro che la punta dell’iceberg. Non a caso, le aule di giustizia testimoniano diversi casi in cui gli stessi soggetti inizialmente indicati come scafisti – e, quindi, indagati e poi imputati dei reati in tema di immigrazione – si sono in alcuni casi rilevati vittime essi stessi, in quanto obbligati dai «veri trafficanti e organizzatori» (così testualmente la giurisprudenza), se non in alcuni casi sequestrati in territorio libico «al precipuo scopo di servirsene poi come scafisti». Se così stanno le cose – e se, cioè, colui che viene definito come scafista, lungi dall’essere sempre un trafficante, spesso altro non che è uno degli stessi malcapitati vittima anche lui di vere e proprie organizzazioni criminali – occorre tornare alla prima domanda e chiedersi se un tale inasprimento sanzionatorio nei loro confronti corrisponda, anche tenendo conto della rappresentazione che ne è stata data dai media, alle intenzioni sbandierate dal Governo (ossia, quelle di colpire «non solo i trafficanti trovati sulle barche, ma anche i trafficanti che ci sono dietro»).
La risposta temo sia negativa. Sbandierando fermezza nella risposta dello Stato attraverso una generica «stretta su trafficanti e scafisti» e generando quantomeno confusione tra le due stesse nozioni – a volte usate come sinonimi e altre volte no – si prosegue inesorabilmente lungo la strada populista (recentemente battuta in occasione del cosiddetto “reato di rave party”) del più penale. Insomma, per l’ennesima volta in occasione di eventi tragici, non si resiste alla tentazione di individuare nel diritto penale – visto come “arma” dalla seria “potenza di fuoco” (per dirla con le parole del professor Pulitanò) – la soluzione a un problema che, al contrario, travalica i confini nazionali e dovrebbe essere affrontato con strumenti di diversa natura. Davvero si può pensare che, in un ordinamento come il nostro che già prevede pene molto elevate per questi reati, un ulteriore intervento in sede penale (attraverso l’introduzione un nuovo reato e l’innalzamento del trattamento sanzionatorio di quelli già esistenti) possa avere una qualche efficacia deterrente nei confronti di chi promuove e organizza i traffici di migranti? Il fatto che la pena, nel caso di morte non voluta di una o più delle persone trasportate, possa essere di 10, 15, 20 o 30 anni di reclusione può davvero rappresentare un ostacolo a un fenomeno di questa portata?
Tornano in mente le parole di un grande giurista, il professor Sgubbi, il quale ricordava come sia ormai «invalsa, nella collettività e nell’ambiente politico, la convinzione che nel diritto penale si possa trovare il rimedio giuridico a ogni ingiustizia e a ogni male sociale». Ecco, è tenendo a mente queste parole che bisogna sperare arrivi presto il momento in cui la politica – che, sempre più spesso, «si costerna, s’indigna, s’impegna, poi getta la spugna con gran dignità» (Fabrizio De André, “Don Raffaè”) – la smetta di vedere nel diritto penale la bacchetta magica per porre rimedio a qualunque tipo di ingiustizia o tragedia che si verifichi nel nostro Paese.
Avvocato, direttore della rivista “Giurisprudenza Penale”