Quelle voci che si alzano a Istanbul, Roma, Nizza... Si sa che la storia la scrivono i vincitori ed è ovvio che quanto sentiamo dire in questi giorni sul destino della Turchia sia ciò che il presidente Erdogan mette in opera per affermare il suo riconquistato potere. Lo stesso copione che oggi recitano i giornalisti, ieri lo componevano i tragici: «Ed or che quelli caddero, vibrando a un punto e ricevendo il colpo (…) in me tutto assommo il potere, occupo il trono». È il discorso di Creonte, confermato sul trono di Tebe, ai suoi fedelissimi: un uomo che sia degno di governare deve dar prova di un animo forte proprio nell’uso del potere, quanto equivale – tanto per cominciare – all’imporre le sue leggi. A parte la sublime arte poetica di Sofocle – a fronte delle più prosaiche sintesi dei cronisti –, c’è poco di nuovo sotto il sole. I golpisti di una decina di giorni fa sono degli illeciti usurpatori non solo per la giustizia, ma anche per le piazze turche, sono dei traditori della patria democratica, proprio come lo era Polinìce, l’uomo cui Creonte, appunto, rifiutava di dar sepoltura: «Costui col bando imposi alla città che niun gli dia sepolcro, e niun lo pianga, ma si lasci insepolto, e, divorato dagli uccelli e dai cani, e, deturpato, sia visibile il corpo». Antiche immagini che si assimilano nella memoria guardando le proiezioni dei corpi nudi, delle mani legate a sprezzo e obbrobrio dei traditori golpisti del 15 luglio, che hanno fatto il giro del mondo. Nessuno si curerà di loro, penseremmo tutti. E invece no. Una telecamera piuttosto solitaria ha ripreso, qualche giorno fa, fuori da un edificio dove i golpisti sono tenuti sotto arresto, uno sparuto e impaurito drappello di parenti. Tutti tengono gli occhi bassi e la bocca chiusa. Una sola è quella che ha il coraggio di parlare: la sorella di un golpista. Uno che guidava i carri armati, forse anche un assassino. Il capo coperto dal velo, ma la parola chiara e decisa a chiedere di conoscere il destino di suo fratello, a farsi sentire affinché il diritto non venga calpestato. Lo stesso coraggio di Antigone che chiedeva addirittura la sepoltura per Polinìce. Che invocava una giustizia che andava oltre quella civile e penale, vigente a Tebe, e che, nei libri di Liceo, si definisce la 'giustizia divina'. Sì, è infatti una giustizia divina e quindi anche oltremodo umana, quella che anima il
diritto delle sorelle. Il diritto di Ilaria Cucchi che da anni grida, denuncia, querela, crede, lotta e batte ogni strada all’interno delle Istituzioni di legge e di governo, affinché la persona e la vita di suo fratello Stefano, siano restituite alla loro irrinunciabile dignità. Voce forte per una giustizia cui il diritto italiano oppone ancora – ahimè! – un orecchio più sordo, esiti sempre più miopi e impossibili da accettare. Il volto e il corpo di Stefano Cucchi sono lo specchio di una verità, quale autentica istanza profetica, di cui la sorella chiede il nome. Il
diritto delle sorelle è anche quello di una ragazza di Nizza, musulmana, giovanissima cugina di un bambino di tredici anni, ridotto anch’egli a brandelli sulla
Promenade des Anglais lo scorso 14 luglio. Il viso dolce, gli occhi neri e un ottimo francese dalla sua bocca emozionata e sicura nel chiedere 'giustizia', nella sua interpellanza ai responsabili della sicurezza, nel voler conoscere la ragione per cui quella sera, in un’area assolutamente chiusa al traffico, transitasse un camion lungo quindici metri. Il sindaco di Istanbul vuole un cimitero per i golpisti dove tutti possano insultare i traditori. Si tratta della violazione di ogni giustizia, che va oltre la stessa pena di morte, ancorché dell’atroce perversione di un simbolo. L’Antigone che voleva una tomba per suo fratello Polinìce, perché potesse avere «gemito e lacrime» come riscatto di memoria e di speranza da parte di chi lo avrebbe amato per sempre, si trasforma in un eterno altare di odio e di disprezzo. Ma il
diritto delle sorelle non si arrende. Nei casi più diversi, per fratelli innocenti o colpevoli, esse reclamano le «norme non scritte degli dei», ma scritte sulla carne. «L’impossibile brami – dice Ismene ad Antigone – l’impossibile tenti». «Quando più non potrò, desisterò» risponde fiera e forte la sorella. E noi speriamo che mai giunga quel giorno.