Vivere in compagnia della Sla, essere libero e restare missionario
Caro direttore,
ringrazio “Avvenire” per lo spazio che ha dato alla presenza e alla testimonianza di Paolo Palumbo a Sanremo, che mi ha molto colpito e rallegrato. Anch’io “sono Paolo”, non solo metaforicamente. Sono anch’io affetto di Sla da diversi anni e da due, dopo la tracheostomia, immobilizzato. Anch’io comunico tramite puntatore oculare. Mi sento in profonda sintonia con Paolo. Anch’io amo la vita più che mai. La prigione del corpo non mi impedisce di essere libero. Quasi ogni notte sogno di viaggiare e di andare in... missione! Sono un missionario comboniano di origine portoghese e la mia compagna, la Sla, mi ha strappato all’Africa dove mi trovavo. Adesso la carrozzina è diventata il mio pulpito per annunziare la gioia del Vangelo, soprattutto con il sorriso. Per dono, fin dall’inizio mi ha sempre accompagnato una grande serenità interiore. Non mi sono domandato perché fosse capitato proprio a me una malattia del genere di cui ignoravo persino l’esistenza. Dopo l’iniziale smarrimento mi si sono aperti orizzonti nuovi insospettati e si è rafforzata in me la convinzione che la vita sia feconda di immaginazione e creatività e che ci offra sempre delle nuove opportunità. Forse non sono quelle che sognavamo ma non per questo meno belle e totalizzanti. La testimonianza di Paolo ne è una eloquente conferma. Come Paolo, anch’io cerco di coltivare i rapporti con gli amici, la vita sociale, ecclesiale e missionaria. Ho creato e continuo a gestire un blog ( https://combonianum.org/ ) per continuare a offrire, in qualche modo, il mio piccolo contributo alla missione. Mi ha commosso la dedizione di Rosario nell’assistere suo fratello Paolo, e la nuvola di amici che avvolge questo giovane. Sono loro che ci sostengono. Come diceva Paolo: sono gli amici le nostre mani e i nostri piedi. Penso che, nell’attivismo frenetico di oggi, la nostra condizione di assoluta “passività” e dipendenza diventa una opportunità per fare emergere la bontà e generosità dell’animo umano.
Con molta stima,
padre Manuel João Pereira Correia, Castel D’Azzano (Vr)
E io, caro padre, provo a mettermi nei suoi panni, nei panni di Manuel. Come in quelli di Paolo e di Salvatore e di Andrea e di Anna e di Eluana... Con umiltà, e con rispetto, con tremore e timore. E lo faccio da essere umano prima ancora che da giornalista. Credo, infatti, che questo sia l’unico modo possibile per guardare alla vita degli altri, e persino per scriverne. Ma credo anche che sia l’unico modo per capire meglio anche la nostra vita, che non è mai senza relazioni, senza provocazioni, senza emozioni, senza profondità e senza altezze che ci riguardano e ci scuotono, e che germinano spesso oltre di noi. E interpellano il senso di Dio, l’attesa di bene, l’ansia di pienezza e di giustizia, la speranza di salvezza... Per questo, ormai da una vita, provo a “sentire” la fatica, la sofferenza e la voglia di esserci e di comunicare che sperimentano le persone colpite da malattie e da disabilità gravi, da disagi e da rifiuto, da stigma sociale e da condanne, da pregiudizio e da ogni forma di violenza. Ma fermiamoci, oggi, a malattie e disabilità, a un male come la Sla che ci fa effetto anche solo evocare e che lei affronta quotidianamente nei suoi nervi e nella sua carne.
La lettera che ci ha inviato, mi creda, vale una canzone sul palco del Festival di Sanremo per chi ha orecchie e testa e cuore per intendere. La platea non sarà altrettanto grande, ma grande è la forza della suo essere missionario, della fedeltà alla scelta di essere seminatore, «soprattutto con il sorriso» e pur nella condizione di vita attuale, della Parola che è Cristo. Il suo Blog – dove si mescolano italiano, portoghese ed echeggiano le lingue sorelle del cielo e della terra – ne è una prova digitale eppure tangibile. Serbo in cuore, e idealmente porto nella bisaccia, l’ultima frase che mi ha e ci ha regalato: «Nell’attivismo frenetico di oggi, la nostra condizione di assoluta “passività” e dipendenza diventa una opportunità per fare emergere la bontà e generosità dell’animo umano». Grazie, padre Manuel, lo dico io a lei. E sono sicuro di non essere il solo.