«Che tormento nutrire una semi-fede». Forza, lungo la strada io ho capito che...
Caro direttore,
mi creda e voi, amici lettori, credeteci. È molto brutto vivere senza credere. Io invidio profondamente chi ha il dono immenso della fede. Perché senza Dio la vita è piena di dubbi, è tormentata, senza alcuna prospettiva dopo la morte. Chi siamo? Da dove veniamo? Dove andiamo? Sono gli enigmi urticanti che arrovellano la mia povera fede. La mia è una semi-fede che si nutre e si impoverisce (utilitaristicamente?) a seconda delle carezze e degli schiaffi che le mie giornate mi infliggono, e le sberle sono molto più numerose. Di qui il mio conflitto con Dio si fa tesissimo: riesco a implorarlo, a pregarlo, ma troppo spesso a imprecarlo. Da profano penso che per giungere al dono della fede, la nostra vita abbia bisogno di supporti e di luci. I miei supporti io li sento nel non riuscire a veder fisicamente Dio e quindi a ritenerlo troppo in alto ma presente, nelle bellezze della natura, un sole che nasce e che muore, nella innocenza del sorriso di un bimbo, in una mano che si tende ad aiutarti. Ma poi questi sostegni si perdono dinnanzi a un cataclisma che annienta migliaia di vite, dinnanzi agli atroci spasmi di una vita che si spegne, alla morte di un fanciullo e alle ingiustizie e alle malvagità umane. Vorrei tanto credere, ma il dubbio mi angustia e se anche il poeta Unamuno scriveva che «la fede che non dubita non è fede», troppo spesso la mia disperazione si ritrova nel Salmo: «Mio Dio, perché mi hai abbandonato?».
Edgardo Grillo
Non ho risposte all’altezza della sua domanda, caro amico. Anche perché leggere ciò che mi ha scritto sulla sua semi-fede mi spinge a riflettere sulla mia semi-fede. Sarei perciò tentato di cavarmela rammentandole un celebre incoraggiamento di padre Pio, il santo frate che segni buoni e profondi ha portato su di sé e ha impresso nell’anima di tanti: «Tu puoi, fratello mio, non credere in Dio, ma Dio non cesserà di credere in te». Proverò, però, a dirle qualcosa che ho imparato. E cioè che la fede, come lei stesso ci rammenta, è un dono da saper accettare, e non è sempre facile. Ma anche che il vero dubbio non è mai ostentato scetticismo e, dunque, non è nemico della fede. Tanto più che esso diventa spesso la “pietra focaia” capace di generare, nel necessario cozzo che accende, scintille utili per alimentare la lampada che fa luce sul cammino di chi cerca. Cammino anche accidentato e addirittura sconvolgente. Pochi mesi dopo la sua elezione nel 2013, davanti a circa tre milioni di ragazzi e ragazze riuniti a Rio de Janeiro per la Gmg, papa Francesco ricordò a quei giovani e giovanissimi e a noi tutti che «la fede è una fiamma che si fa sempre più viva quanto più si condivide». Credo che in questa lezione del Papa ci sia una semplice e grande verità. La fede cristiana è percorso certamente personale e colloquio intimo con Dio, ma è anche – dovrebbe sempre essere! – gioioso fatto comunitario (quando almeno due sono riuniti nel nome di Gesù, Lui è realmente presente, cfr. Mt 18,20). Ed è da una comunità credente (e che si può riconoscere per l’amore fraterno di cui è capace) che la fede-dono si trasmette, s’irradia e attrae. Se pensassimo di poter vivere e conquistare e custodire la fede solo per noi stessi, se pensassimo di esserne padroni esclusivi o – come dice ancora il Papa – di farcene «doganieri», allora potremmo davvero smarrirla, magari senza rendercene conto. E persino potremmo arrivare a ucciderla in noi stessi e negli altri, la fede. Ucciderla di rovelli e di presunzioni. Ma finché si ha il suo sano senso di allerta e anche di dolore, gentile signor Grillo, finché si formulano domande acute e sentite, la fede non è a una fede a metà, è una fede viva.