Insieme, in quest'ora così esigente col nostro dovere e la nostra speranza
Caro direttore,
grazie per la vicinanza che “Avvenire” ci offre in questo sofferto tempo di pandemia; grazie per la speranza verso cui ci sa orientare! È facile, in questi giorni di preparazione alla celebrazione del Natale del Signore, sentire affiorare il ricordo di esperienze legate ad altri anni, anche lontani, i cui vissuti ancora riscaldano il cuore. Era quasi Natale anche quell’anno, il nostro primo Natale da sposi. E il nostro primo figlio o figlia – chissà? – in arrivo da lì a poco, all’inizio del nuovo anno. Invece, la notte prima della Vigilia, la corsa in ospedale e, dopo qualche ora, il cesareo. Il risveglio in sala operatoria, giusto il tempo di sentire una voce festante che pareva lo annunciasse al mondo: «È una bambina!», poi una nuova sedazione e un dormiveglia durato fino a notte inoltrata. E poi... lei! L’ho vista, l’ho tenuta tra le braccia per la prima volta all’alba del giorno di Natale. Il suo minuscolo corpicino caldo cercava pace dentro il mio abbraccio e io avevo la sensazione che tutta la mia vita, fino ad allora, fosse stata per arrivare lì, a quel batuffolo di energia che si affacciava al mondo. La mia identità di figlia era maturata in quella di mamma e io mi sentivo interamente protesa, aperta, arresa al mistero di quella creatura. Continuo a ripensare a quel mio Natale, in quest’anno di divieti imposti dal rispetto per la vita, prima che dalla legge. Anche noi, come tanti, quest’anno a Natale saremo forzatamente lontani: io e mio marito da una parte, nostra figlia dall’altra. Mai l’umanità intera ha vissuto contemporaneamente un Natale come questo. Distratti dal gridarne l’angoscia, rischiamo di perdere il suo dono: un Natale piccolo, umile. Lasciamo che sia il Veniente – e non la pandemia – a metterci in ginocchio, nelle nostre case un po’ vuote di voci, di abbracci, ma tutti uniti nell’abbraccio certo dell’Amore che eternamente viene. Buon compleanno, cucciola nostra, buon Natale, caro, prezioso mondo.
Lorenza Polvara
Gentile direttore,
le scrivo per condividere un pensiero che non mi lascia da quando vidi in tv e sulle prime pagine dei quotidiani il corpicino di un bimbo di due-tre anni riverso su una spiaggia turca dopo un naufragio. Il corpicino di Alan. Ho pregato e sperato che orrori del genere non accadessero più. Altri bimbi sono annegati. Altre immagini terribili del campo profughi di Lesbo, altro dolore e sofferenza per bambini piccoli. Come sia possibile tutto ciò, non ho la capacità di comprenderlo. Tra poco nascerà Gesù Bambino. Sarà un Natale diverso da tutti gli altri, forse avremo più tempo per riflettere sul vero significato del Natale, della nascita del Salvatore. Forse avremo più tempo per pregare e guardando i nostri bimbi o i nostri nipotini penseremo a come altri bimbi e nipoti non saranno al caldo, protetti dai genitori, non riceveranno regali, non mangeranno panettone e torrone. Altri bambini saranno su una imbarcazione nel tentativo di attraversare il Mediterraneo, altri bimbi saranno al freddo sotto un’esile tenda. Non lamentiamoci di questo nostro strano e più sobrio Natale. E pensiamo ai tanti bimbi nati in luoghi ove imperano profonde disuguaglianze economiche, che non possono andare a scuola, avere garantito il diritto alle cure sanitarie, a crescere sereni e concorrere alla ricerca della propria felicità e che finiscono addirittura vittime di guerre e di una moderna tratta degli schiavi. A lei, alla redazione, ai lettori e tutte le vostre famiglie l’augurio di un sereno e santo Natale. Grazie per il vostro impegno quotidiano.
Elisa Bonfanti
Caro direttore,
provo a fare così gli auguri a lei, a tutta la redazione e ai lettori, “accendendo” i versi di una mia poesia intitolata “Le luci di Natale”: «A dicembre alle cinque un buio che si allarga! / Esitanti si accendono i lampioni, / ma quando l’oscurità è al suo colmo, / nei giorni di Natale, nella città luci a migliaia / infrangono le tenebre a promettere / che non sarà per sempre notte. // Anche allora un denso buio / offuscava le colline di Betlemme, / solo i fuochi dei pastori a rischiararlo, / a disegnare ombre incerte attorno a greggi e ovili / fino alla luce abbagliante di una stella / tenacemente inseguita dai tre Magi / che l’hanno attesa tornare a ogni tramonto. // E i pastori a fatica a reggere quel fulgore / per i loro occhi impigriti dalla notte. / In quel chiarore tanta la gente che, stranita, / si incammina senza conoscere la meta / come costretta a levarsi e andare. // La cometa di Betlemme ha spartito il mondo. / Restano fatica, dolore e morte, / ma quella stella è primizia di un’attesa. / Duemila anni dopo ne rimane il ricordo / se gli uomini a Natale ancora accendono le luci / lungo le strade e dentro casa. / Forse non ne riconoscono più il motivo, / ma ne resta una memoria addosso, muta, / la promessa di non essere stati abbandonati».
Franco Casadei
Gentile direttore,
quanto sta accadendo ci consente di vivere il Natale? Certo, non è possibile festeggiarlo con la spensieratezza di sempre. In compenso, da ciò che stiamo vivendo, possiamo trarre un messaggio vitale. Quello del carattere generativo degli eventi drammatici. Sì. Dobbiamo riscoprire la forza propulsiva delle esperienze negative. Convinciamoci di una cosa. Le persone crescono perché incontrano difficoltà. Le aziende si ristrutturano grazie alle crisi. Le nazioni sono sorte perché hanno avuto avversità e avversari. I grandi balzi in avanti della civiltà, sono avvenuti in seguito a catastrofi, anche di portata inimmaginabile. Un esempio per tutti. La peste nera di metà Trecento che quasi dimezzò la popolazione europea. Montagne di morti, sepolti a mucchi e in modo anonimo. Eppure, proprio grazie a quella tragedia, è esplosa una incontenibile voglia di vivere che ha generato uno dei periodi storici più decisivi per la civiltà: il Rinascimento. La stessa nascita di Gesù in che contesto è avvenuta? In un momento in cui, la civiltà romana, pur essendo al culmine della vigoria organizzativa, economica e militare, dal punto di vista dei valori fondanti, era allo stremo. Dominava lo scetticismo. Un quadro simile all’epoca in cui viviamo, in cui l’unica forma di conoscenza consentita è quella di natura percettiva e sperimentale. Mentre non esistono più certezze sulle spiegazioni prime della realtà. Ma, in fondo, cosa è il Natale? La nascita di un Bambino. Ed ogni bambino che nasce coincide con un nuovo inizio della vita. L’anima del Natale è l’idea che si può ricominciare da capo. Proiettarsi in avanti, credere in un domani migliore, è tutt’altro che menzogna consolatoria. È la sostanza stessa del cuore umano, il modo normale di funzionare della mente. No, il Natale non è solo roba da bambini. È ricerca di novità e di futuro. È l’uomo che, ogni anno, con rinnovata fiducia, “dice sì” al mondo e agli altri.
Luciano Verdone
Caro direttore,
mi ricordo quando dicevamo che il virus ci avrebbe cambiati, che dopo la prima quarantena saremmo stati tutti più “buoni”, gentili... ma non è stato così. Personalmente non capisco più le persone che incontro, ognuno ormai parla solo e sempre di sé, ma dov’è finito il bene verso il prossimo? Credo che il periodo passato in quarantena ci abbia reso peggiori di quanto già non fossimo, ci ha allontanato gli uni dagli altri, ha cambiato il nostro carattere. Questo mi fa paura, perché noto quanto ogni anno che passa succedano cose sempre più negative. Ci siamo chiesti come mai? Diamo sempre colpa agli altri, senza guardarci dentro, senza renderci conto che siamo i primi a commettere certi sbagli. E ora queste diverse tonalità di colore sull’Italia dicono come stiamo, fanno la differenza. Tra uscire e comprare o no. Capisco la voglia di muoversi e di far regali, ma capisco di più che il regalo di Natale più bello è stare insieme, senza perdere più nessuno. Come tutti, da mesi ho un sacco di domande in testa, pensieri su pensieri, e nessuno mi sembra riesca a darci risposte. E allora come si fa a continuare a sperare? Poi ci chiedono perché noi giovani siamo così pessimisti, siamo spesso stanchi e nervosi, ma poi non tutti siamo uguali, non c’è un’unica classificazione sotto l’insieme di “ignoranti” che fanno solo assembramenti e girano senza mascherina, perché non è così, ci sono anche ragazzi che pensano alla salute della propria famiglia e al loro futuro. Questo Natale non sarà “magico”, non sarà lo stesso per le tante famiglie che hanno perso i propri cari. Ed è per questo che bisogna essere un po’ più responsabili e semplicemente, decisamente meno egoisti.
Elisa Tedoldi
Caro direttore,
quasi non ci accorgiamo, che è arrivato Natale. E che il Natale non è una festa qualunque. Tutti abbiamo in bocca la speranza del vaccino, e le nuove norme da rispettare. Quasi a dire che la luce del Natale, quest’anno, è in realtà il vaccino.
L’annuncio di salvezza, dunque, nelle mani della scienza, con i nuovi sacerdoti, gli scienziati, oramai sempre più presenti nei giornali e tv. La salvezza, la nuova luce, la buona novella appannaggio della scienza. Una luce sufficiente per chiarire, per illuminare, per offrire un senso? Del resto, le pandemie, per chi legge in controluce, sono una cosa normale nel corso della storia, una delle infinite facce della natura. Solo che questa volta la scienza in pochi mesi sembra essere in grado di porvi rimedio, non lasciando alla sola immunità di gregge il compito di garantire la fuoriuscita dal tunnel. Al posto del Natale della tradizione, dunque, il 25 dicembre, avremo il Natale laico, il 27 dicembre, dei primi vaccini? Resta la domanda se questo Natale laico potrà mai scalfire la domanda sul senso di tutto questo. Se, cioè, vi sia un senso non-scientifico alla nostra vita, in questo caso resa ancora più fragile dalla pandemia. Perché per la scienza, in fondo, un senso non-scientifico non c’è, ma tutto è sull’onda del flusso continuo della vita, della natura, a volte madre altre matrigna. Senza un perché. Eppure quella domanda di un perché non si lascia comprimere, annullare, annichilire. Più tenti di negarla, più riemerge con naturalezza, spontanea. È giusto che ognuno, poi, cerchi di declinarla e di viverla. In attesa di una Luce che sia più luminosa delle nostre mille luci.
Gianni Zen
Quante domande e quanti ricordi, quanta bellezza e quanto realismo, quanta solidità e quanta sana incertezza, ma soprattutto quanta profondità nelle riflessioni dei nostri lettori. Pensieri che mi piace leggere, anzi ascoltare (provo a immaginare da sempre anche la voce di chi mi scrive). Pensieri che si fanno messaggio importante e anche scomodo, proprio come quelli contenuti nelle sei lettere che ho scelto e alle quali ho lasciato quasi del tutto la parola in questo spazio di dialogo, cercando di costruire un piccolo-grande mosaico che spero risulti più bello e coinvolgente di ogni mia intenzione.
Questi messaggi, mi raggiungono ogni giorno nel pieno del quotidiano lavoro dei miei colleghi e mio, e ci confortano e ci spronano. Per ciò che dicono e per ciò che tacciono, per la luce che contribuiscono a tenere accesa e per quella che – direttamente o indirettamente – ci chiedono di custodire, accompagnare e condividere. A volte ce ne sono anche di illeggibili (e inascoltabili), e quasi sempre li risparmio a colleghi e lettori. Non servono a molto, temo, se non a confermare uno stile che purtroppo infesta il dibattito pubblico dei giorni nostri, stridente colonna sonora del faticoso inoltrarci nel XXI secolo. E anche noi tutti, gente d’Avvenire, abbiamo invece bisogno di altro. Di conforto e di sprone, appunto. Di parole acute e persino taglienti, ma generose. Di indignazioni potenti, perché mai “chiuse”. Di sfide concrete da affrontare insieme. Proprio ora, in questo tempo pandemico che – come ripeto a colleghi e amici – è così esigente con il nostro dovere e la nostra speranza. E l’uno e l’altro, il dovere e la speranza, sono il senso del giornale che facciamo, giorno dopo giorno, e che anche oggi mettiamo nelle vostre mani. Grazie, con l’augurio più caro e con gioia vera. Buon Natale.