La saggezza di Terenzio, afro-romano. E quella che serve all'Italia e all'Europa
Passa dalla strada della formazione delle coscienze e delle intelligenze, come fu per il grande letterato, da ragazzo straniero e schiavo, la via della concittadinanza e della pace. Vale per il mondo e vale qui da noi. Dove le conseguenze dovrebbero finalmenteessere anche legislative. Lo si chiami Ius Culturae oppure Ius Scholae o in altro modo ma lo si faccia
Caro direttore, vorrei proporle, a debita distanza da ben noti clamori polemici, alcune considerazioni sul pericolo di “sostituzione etnica” nel nostro Paese. Prendiamo il caso di Terenzio, schiavo nordafricano di etnia berbera, descritto da Svetonio come piccolo e di carnagione scura, bello e intelligente. Il suo padrone, il senatore Terenzio Lucano, lo fece studiare, e finì per dargli la libertà. Terenzio frequentò il meglio della cultura romana, e contribuì ad arricchirla con le sue bellissime commedie.
A differenza di Atene, la cui democrazia su basi etniche non concedeva ai forestieri la cittadinanza, Roma era “città aperta”: realisticamente consapevole di aver bisogno di braccia e menti da qualunque parte venissero. E soprattutto orgogliosa e fiduciosa nei suoi punti di forza, non riducibili all'esercito: ad esempio uno “ius” a vocazione universale, una grande capacità (finché è durata...) di gestire politicamente i conflitti interni, e la mossa decisiva di lasciarsi “vincere” dalla Grecia sconfitta, assumendo il meglio di quella straordinaria cultura.
Viene dal greco “scholè” la parola “schola”, scuola, strettamente imparentata con “otium”, lo spazio liberato dalle cure pratiche, “sacro” in quanto consacrato alla conoscenza e all'arricchimento spirituale. È lo spazio della comunicazione significativa, sia dall'alto delle cattedre, sia nello scambio orizzontale tra persone diverse: cioè ciascuna unica, irripetibile.
Significativa e sorprendente: così come lo schiavo Terenzio (qualunque fosse il suo nome berbero) aveva sorpreso il padrone rivelando le sue notevoli capacità di assimilazione di lingua e cultura, di piena integrazione nella civiltà greco-romana. “Roma città aperta”: a gente di ogni “razza”, dai più civilizzati mediterranei, un po' scuri di pelle, fino ai rozzi e incivili barbari del Nord, alti, bianchi e biondi come qualche ministro italiano di oggi, insofferente verso la diversità e timoroso di essere sostituito (etnicamente, s'intende).
Una domanda: a distanza di duemila e più anni, che cos'è che non va nella nostra cultura e nella nostra scuola da far pensare a chi ci sta governando che la sua capacità di fascinazione e coinvolgimento sia così scarsa da non poter fare presa su bambini e ragazzi “venuti da lontano”, così come era riuscita a fare soprattutto nel secondo dopoguerra con bambini e ragazzi “venuti dal basso” della società italiana?
Ma andiamo! Io definirei questo atteggiamento colpevolmente, o ottusamente, rinunciatario: oltre che offensivo verso la sostanziale capacità della nostra scuola e dei suoi molti valorosi insegnanti di proporre conoscenza, capacità critica, civismo. Più di vent'anni fa mi è capitato di esaminare alla maturità classica un ragazzo nordafricano, che era entrato in contatto con la lingua italiana a dodici anni. Una buona prova, la soddisfazione commovente di chi stava raggiungendo un grande traguardo personale e famigliare. L'ho rivisto recentemente, è un italiano colto e ben inserito professionalmente. Piccolo e un po' scuro, come Terenzio. Che in un suo verso ha saputo concentrare la quintessenza dell'umanesimo: «Sono uomo, e non considero estraneo a me nulla di ciò che è umano». Puntare sulla grande forza della scuola e della cultura: altro che ottusa e rinunciataria paura di “sostituzione etnica”.
Bepi Campana
Grazie, caro professor Campana, per la sua bellissima riflessione così capace di far cogliere come storia e cultura – la nostra storia e la nostra cultura, di cui dovremmo essere custodi vivi e non solo sbandieratori – possono illuminare la cronaca nella quale siamo immersi. Ricordo che Terenzio (Publio Terenzio Afro), il berbero portato da Cartagine a Roma come schiavo, poi fatto libero, uno grandi letterati della latinità, è stato molto amato anche da san Paolo VI e che nell’incipit della costituzione pastorale Gaudium et spes , documento-cardine del Concilio Vaticano II, riecheggia la luminosa frase, che lei ricorda a conclusione della lettera, «Homo sum, humani nihil a me alienum puto»: «Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d'oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore…».
Per i cattolici (non solo) italiani, e per ogni altro cristiano, tutto dovrebbe esser chiaro da più di due millenni. E altrettanto per coloro che, comunque credano e comunque la pensino, sono coscienti della vera forza dell’identità generata dall’umanesimo concreto e inclusivo che ci appartiene e al quale apparteniamo da secoli e che il Vangelo ha illuminato e deve maggiormente illuminare in questo tormentato passaggio d’epoca. Davanti a noi c’è più che mai la splendida ma niente affatto scontata impresa di comporre e valorizzare le umane diversità, e non da contrapporle sino alla guerra dei mondi e delle antropologie, sino agli scontri di civiltà. E credo che questa sia una missione inevitabile per le comunità cristiane e per ogni persona di retta coscienza. E so che è compito della scuola accompagnarlo. Una scuola che già sa farlo, ma che deve essere messa in condizione di farlo sempre meglio. Passa dalla strada della formazione delle coscienze e delle intelligenze, come fu per Terenzio, la via della cittadinanza, anzi e della concittadinanza e della pace. Vale per il mondo e vale qui da noi. E ha conseguenze, o dovrebbe infine averne, anche legislative. Che lo si chiami Ius culturae o Ius scholae o in altro modo, nulla cambia, purché abbia questa buona sostanza.
Ecco perché, gentile amico, anch’io, continuo a ripetere che da sostituire ci sono le disastrose retoriche respingenti ed escludenti che ancora vengono alimentate. La mobilità umana è parte essenziale della vita della Terra e della costruzione del futuro e della ricchezza delle società. La grande novità dell’ultimo secolo e mezzo è che essa si realizza sempre in modo incruento nonostante che ci siano ancora guerre e depredamenti, persecuzioni e miseria alla base di tanti dolorosi sradicamenti e dell’emigrazione forzata di persone e famiglie. Ma nessun gruppo si presenta più con le armi in pugno ai confini degli altri. E questo succede nonostante che si continui follemente a inzeppare il mondo di armi sempre più distruttive. Bisogna saperlo vedere, bisogna capirlo e farlo capire. La via maestra è accogliere, riconoscere e valorizzare la nostra comune umanità. E va percorsa con saggezza e regole chiare, senza pensare che tutto sia facile (nella nostra vita e nei nostri incontri non tutto lo è), ma con alla base questa condivisa e fraterna consapevolezza della stessa grande famiglia di cui facciamo parte. Mi piace pensare che tutto ciò sia la traduzione “in carne e ossa” di quell’umanesimo potente e liberante di cui lei scrive e che su queste pagine di “Avvenire” trova da molti anni costante e plurale voce. Continuo a sperare e a spendermi affinché coloro che hanno potere e dovere politico in Italia e in Europa ne siano altrettanto consci e, nelle loro scelte, una buona volta si dimostrino all’altezza.