Opinioni

«Io, malato di Sla, tra vita e morte». Serve ascolto. E una regola saggia

Marco Tarquinio sabato 19 febbraio 2022

Paolo Annunziato è un uomo che ha avuto ruoli di grande responsabilità. Oggi combatte con una malattia inesorabile. Mi scrive spiegando il sì all’eutanasia. Il referendum bocciato avrebbe però reso legale ben altro. Ma le Camere possono trovare una via umile e lungimirante.

Gentile direttore,
le scrivo all’indomani della bocciatura del quesito referendario sull’articolo 579 del Codice penale e in relazione all’articolo del professor Mario Melazzini, pubblicato sull'inserto di Avvenire Èvita del 30 gennaio. Premetto che ammiro Melazzini per il suo impegno e la forza d’animo, ma vorrei provare a spiegare perché un malato di Sla, come io sono da sette anni, si sia pubblicamente espresso a favore di un referendum sull’eutanasia. In particolare, vorrei spiegare che dietro le diverse posizioni rispetto al tema c’è lo stesso rispetto della vita. Infatti, per un malato disperatamente attaccato alla vita, la scelta se continuare a vivere o meno, dipende dalla qualità della vita, che si compone di tanti fattori. Tra questi due hanno particolare peso: la vicinanza dei propri cari e condizioni economiche adeguate. Quando queste non sono presenti, e la Sla non fa distinzioni di reddito, allora fondamentale diventa il ruolo dello Stato e l’assistenza economica e socio sanitaria. In assenza di queste condizioni, un malato è tormentato dai sensi di colpa verso la propria famiglia, la cui vita è letteralmente massacrata dalla Sla. Non è facile immaginare le condizioni in cui vivono le famiglie Sla. Un malato, agli stadi più avanzati e inevitabili della malattia, non si muove, non parla, non mangia e non respira autonomamente, non comunica, se non, come me, attraverso un puntatore oculare, almeno fino a quando gli occhi non perdono la necessaria mobilità. In queste condizioni vivere non può essere un obbligo, ma una scelta. Non si tratta di dare libertà di omicidio, o di un disprezzo della vita. Si tratta di fornire a chi si trova in condizioni simili alle mie, la libertà di scelta tra una non-vita e una vita che può essere peggio della morte. E non si tratta neanche di un problema spirituale, ma di un requisito di democrazia e libertà in un Paese civile. Ripeto: sono attaccato alla vita, almeno quanto il professor Melazzini. Vorrei avere però la possibilità, o meglio il diritto, a interrompere la mia vita nel momento in cui non sopportassi più questa condizione assurda. E vorrei farlo in modo dignitoso. Di fronte a un Parlamento indifferente e a un sistema, quello delle cure palliative, che dopo oltre dieci anni ancora non funziona, la modifica referendaria mie era apparsa come l’unica effettiva possibilità di conquistare questo pezzetto di civiltà e democrazia.
Paolo Annunziato

La ringrazio, gentile dottor Annunziato, per la sua coinvolgente schiettezza e per la generosità con cui mi mette a parte delle opinioni che ha maturato come cittadino impegnato, ma soprattutto di preoccupazioni e sentimenti anche intimi in questa fase della sua vita, così duramente segnata dalla Sla. Lo fa con il rigore intellettuale e l’umana passione che hanno contrassegnato anche la sua azione pubblica, da economista impegnato in sedi e incarichi prestigiosi in Banca Mondiale, in Confindustria, al Consiglio nazionale delle ricerche, al Centro italiano di ricerche aerospaziali sino alla responsabilità che oggi mantiene al vertice della BioBanca Nazionale Italiana Sla.

Cerco sempre di mettermi nei panni dei miei interlocutori, e lo faccio anche stavolta anche se non è affatto facile. Mi aiuta però la conoscenza diretta di vicende come la sua, a cominciare in questo caso da quella di Mario Melazzini e, soprattutto, di Salvatore Mazza, collega, amico e ancora oggi, in una condizione assai simile alla sua, firma importante del giornalismo italiano e, in particolare, di questo giornale. Conosco loro e conosco la vita delle loro famiglie, li ammiro anch’io e sono solidale per quanto so e posso. Questa esperienza mi ha insegnato ad ascoltare, a rispettare e a mai giudicare e sentenziare dall’alto di convinzioni assolute, cioè senza legame con la realtà. La mia fede cristiana, fede incarnata e non astratta, mi insegna a non avere presunzioni sulla vita e sulla morte, sebbene mi consegni, come bussola e guida, valori saldi e speranze grandi. Anche la Costituzione della Repubblica di cui lei e io siamo cittadini offre saldi princìpi di riferimento. Compreso quello richiamato pochi giorni fa dalla Corte costituzionale nel dichiarare non ammissibile un referendum che non avrebbe "solo" introdotto l’eutanasia nel nostro Paese, ma avrebbe quasi totalmente cancellato il reato di omicidio del consenziente, malato o meno che fosse. L’unico requisito per la depenalizzazione dell’atto sarebbe stata la consapevolezza di sé del richiedente la morte. L’Italia sarebbe stata, in caso di approvazione e di voto favorevole del corpo elettorale, l’unico Stato al mondo a consentire una simile pratica. Lei, dottor Annunziato, scrive che «non si tratta(va) di dare libertà di omicidio», ma di questo – nella forma che rapidamente ho appena descritto – si sarebbe purtroppo trattato. Non ci sarà referendum, dunque, mentre il Parlamento (attualmente la Camera) – in cui lei mostra di aver poca fiducia nel quale io, invece, confido – continuerà a esaminare una proposta di legge che, a partire dall’ormai famosa sentenza costituzionale 242 del 2019, dovrebbe regolare i casi di «suicidio medicalmente assistito». Casi estremi segnati da sofferenze non limitabili neppure con le cure antidolore disponibili e in permanente evoluzione. E regole che dovrebbero contemplare una tragica possibilità, in deroga al principio cardine della tutela della vita umana che è civile argine anche alla pur sacrosanta libertà personale. Una possibilità, che escluderebbe sanzioni a chi agisse in quel contesto ben definito, e che saggiamente dovrebbe evitare di stabilire un diritto-dovere, rendendo la morte un "servizio" esigibile come una qualunque prestazione sanitaria. Queste ultime devono, invece, essere garantite a tutti e a ciascuno senza distinzione di reddito e di residenza (le disuguaglianze in Italia sono ancora e intollerabilmente anche geografiche...). Credo per questa via che possa realizzarsi un razionale e laico punto di incontro tra visioni diverse e mi auguro che sia così, che ci sia un «sì» a regole umili, fondate, lungimiranti. A lei auguro tutta la forza e il bene possibili, e molto di più.