Che venga, e venga presto, il tempo in cui gli Stati mai dispensino morte
Signor direttore,
nel rendere merito ad "Avvenire" d’esser l’unica testata che costantemente degna d’attenzione le questioni attorno al fine vita, credo che possa tornar utile condividere alcuni elementi per corrispondere agli appelli alla consapevolezza emersi nelle ultime dichiarazioni di chi teme che si possa legalizzare l’eutanasia se il Parlamento non risponderà per tempo all’Ordinanza n.207/2018 del 24 ottobre 2018 in cui la Corte costituzionale, relativamente al processo nei confronti di Marco Cappato per la morte di Fabiano Antoniani, ha rilevato tra l’altro che: 1) in determinate condizioni espressamente indicate «il divieto assoluto di aiuto al suicidio finisce (...) per limitare la libertà di autodeterminazione del malato nella scelta delle terapie»; 2) «la soluzione del quesito di legittimità costituzionale coinvolga l’incrocio di valori di primario rilievo, il cui compiuto bilanciamento presuppone, in via diretta ed immediata, scelte che anzitutto il legislatore è abilitato a compiere»; 3) «reputa doveroso – in uno spirito di leale e dialettica collaborazione istituzionale – consentire, nella specie, al Parlamento ogni opportuna riflessione e iniziativa, così da evitare, per un verso, che, nei termini innanzi illustrati, una disposizione continui a produrre effetti reputati costituzionalmente non compatibili, ma al tempo stesso scongiurare possibili vuoti di tutela di valori, anch’essi pienamente rilevanti sul piano costituzionale»; 4) «rinvia all’udienza pubblica del 24 settembre 2019 la trattazione delle questioni di legittimità costituzionale sollevate con l’ordinanza». È su questi punti che il Parlamento era stato chiamato a decidere, non su ciò che appare nella stragrande maggioranza delle dichiarazioni raccolte recentemente. Meraviglia che deputati e senatori si accorgano a nove mesi dalla decisione/invito della Consulta che occorra affrontare urgentemente la questione per bloccare una nefasta decisione dei Magistrati. Tenendo presente la chiusura estiva e la scadenza del 24 settembre fissata dalla Corte Costituzionale, l’unico passaggio istituzionale possibile sarebbe un dibattito in Aula alla Camera o al Senato da convocarsi in via straordinaria come proposto dall’Associazione Luca Coscioni in cui, come sottolinea il sottosegretario Giorgetti, «alla luce del sole» i singoli rappresentanti del popolo si esprimano, seppur con gravissimo ritardo, sui quattro punti. Poi certo il Parlamento è sovrano, ma per fare, o disfare, una legge i tempi sono altri.
Marco Perduca, senatore XVI Legislatura, Associazione Luca Coscioni
Gentile direttore,
premesso che non sono un giurista o un uomo di scienza, ma un semplice ignorante, non le nego che – seguendo da anni tale dibattito – ho maturato una convinzione sul fine vita che vorrei esternarle in maniera sintetica. Negli anni 70 ci convinsero che il divorzio fosse un segno di civiltà e che potevi essere contrario anche senza obbligare altri a un matrimonio infelice dandogli, appunto, facoltà di divorziare. Stesse motivazioni per istituire l’aborto. Il vero scopo di quelle "conquiste" era distruggere la famiglia , il matrimonio vero fra uomo e donna, che era e rimane l’ultimo baluardo sano di una società sempre più liquida dove sostituisce i sentimenti e i legami con le dipendenze varie. Oggi assistiamo in Olanda, in Belgio, in Svizzera, in Gran Bretagna e presto – temo – anche in Italia all’abbattimento degli ultimi affetti che possono legare più persone di fronte al dolore. In una società che cerca di debellare il concetto di dolore (cerchiamo il farmaco che ci risolva tutto e subito) e che ha trasformato le nostre vite in tanti numeri da controllare (per capire se i nostri acciacchi stiano o no nel bilancio...), non vorrei che sotto "nobili" argomentazioni invece si celasse l’intento di convincerci che se non produci e non partecipi all’arricchimento (dei soliti noti) sia meglio terminare questa vita terrena che ti offre dolore e sofferenza. Così, per di più, non saremmo un costo per la collettività. Lo so che sono dubbi orribili, ma a volte quando sento parlare certi "civilizzatori" il dubbio mi assale. Dio ci dia sempre la forza di reggere l’urto del tempo.
Giuseppe Mele
Divido la mia risposta in due parti. A lei, gentile dottor Perduca, dico grazie per il riconoscimento che tributa al nostro lavoro. E ricordo a tutti che le leggi nella nostra democratica Repubblica le fa il Parlamento, e nessun altro. Mi rendo conto, ovviamente, che un ex senatore del suo calibro e della sua esperienza (maturata e spesa anche in diverse sedi internazionali per conto del Partito radicale d’un tempo) questo lo sa molto bene. Ma a volte bisogna ripetere persino ciò che dovrebbe essere scontato in un dibattito rarefatto, distratto, prigioniero di troppi luoghi comuni e di strane (un po’ rassegnate un po’ entusiastiche attese).
Il rispetto che porto per il Parlamento, e la consapevolezza del suo ruolo centrale nell’architettura istituzionale italiana, mi impedisce – e dovrebbe sconsigliare a chiunque – di concepire o descrivere qualunque iniziativa delle Camere e nelle Camere come un’azione di "blocco". Il Parlamento quando agisce non "blocca" altri organi, fa se stesso. Voglio dire che se, come mi auguro, il Parlamento interverrà con misurata saggezza sulla questione dell’«aiuto al suicidio» dopo l’ordinanza della Corte costituzionale dell’ottobre 2018, eserciterà il suo potere e farà il suo dovere. E questo anche in una situazione singolare e lievemente sconcertante come quella generata dalla inconsueta decisione della Consulta di dare alle Camere un compito emendativo delle norme vigenti e di porre, in sostanza, un termine entro il quale assolverlo.
Ma se davvero in sede parlamentare si avviasse un iter legislativo, vorrei vederla l’Alta Corte intimare al Legislatore uno stentoreo "tempo scaduto"! Non siamo mica a una riedizione del Rischiatutto... Allo stesso modo, il rispetto che porto per il lavoro delle diverse Magistrature, e a maggior ragione per quella specialissima costituita nella Corte costituzionale, mi tiene alla larga dalla tentazione di giudicare pregiudizialmente "nefasta" una decisione ancora di là da venire. Lascio questi aggettivi a lei e a chi li usa. È un rispetto, il mio, che non attenua ovviamente la libertà di giudizio e persino di indignazione, ma non faccio mai processi alle intenzioni e tantomeno a quelle dei "giudici delle leggi". Chiarito questo, mi pare indispensabile ricordare che qui non si tratta "solo" «di fare, o disfare, una legge», ma di maneggiare uno di quei princìpi che hanno costituito sinora i capisaldi della nostra civiltà, e non penso esclusivamente a quella giuridica. Un principio che suona pressappoco "si aiuta a vivere, non a morire".
Ebbene: l’inazione dei legislatori sarebbe un modo certamente sbagliato per affrontare il potenziale capovolgimento di questa idea fondativa di legalità e di civile convivenza. Capovolgimento che potrebbe esserci, che potrebbe essere solo parziale o potrebbe non esserci affatto. Mi fermo su quest’ultima ipotesi: la eventuale sentenza in caso di inazione conclamata del Parlamento potrebbe aprire la porta a una semplice attenuazione della sanzione che tenga conto di situazioni personali e speciali sofferenze e dati contesti. Difficile farlo con la cesoia e lo scalpello delle sentenze che abrogano e/o interpretano (e non col cesello del costruttore di norme) ma non impossibile. Se davvero il Parlamento restasse malauguratamente alla finestra, spererei comunque in quest’ultimo esito a cura della Consulta. Speranza che so diversa dalla sua, gentile dottor Perduca, ma che coltivo con forza e ragione. Perché sono e resto convinto che uno scivolamento anche solo parziale lungo il piano inclinato dell’eutanasia sarebbe molto grave. E davvero, stavolta, la parte rischierebbe di valere per il tutto...
A lei, invece, caro signor Mele, dico che neanch’io sono un uomo di legge o di scienza, ma so che con umiltà, capacità di ascolto e sereni princìpi guida si può affrontare e approfondire qualunque problema, sino ad arrivare a conclusioni utili. Lei, da nostro lettore, sa bene che la convinzione che mi dice di aver maturato coincide largamente con quella che – da anni, con i miei colleghi e grazie anche a illustri ed esperti collaboratori – cerchiamo di argomentare e far argomentare con pacatezza e chiarezza su queste nostre pagine. Questo è il punto in una battaglia ideale in cui il pensiero di Dio ci dà forza, e Dio stesso regge la lampada per noi, ma nella quale abbiamo laiche parole comuni con tanti altri, che cattolici non sono.
Bisogna più che mai ragionare, senza farsi prendere in ostaggio da slogan e da emozioni, bisogna vedere e capire la posta in gioco e rendersi conto della direzione di morte verso la quale si vorrebbe sospingere la società degli uomini e delle donne sotto le bandiere sgargianti di una libertà ridotta a maschera di calcoli, arbitrii, rinunce e scarti. Una libertà proclamata a parole e, contemporaneamente, consegnata a uno Stato che la fa eseguire, come una condanna. Non mi stanco di ripeterlo: viviamo in una società che invecchia e che fa fatica a far quadrare i bilanci dei servizi di cura alla persone, e invece di dibattere su come garantire più vita degna per tutti e più umanità, veniamo inchiodati a una discussione infinita e incalzante su come dare di più e meglio la morte, sul "diritto di morire" (si muore tutti e non è un diritto, è parte della vita) e sulla "necessità civile" di poter essere messi a morte a comando quando la vita non è – non sarebbe – più "degna". I conti non tornano.
E non sto pensando alla spesa pubblica, ma alle nostre vite e alla nostra vera libertà dal dolore e dalla paura, che significa anche convivere, consolare e domare l’uno e l’altra. Nessuna cura può essere imposta a nessuno, nessuno può cancellare la vertiginosa libertà di nessun altro di annientare se stesso, ma nessuno può pretendere che lo Stato organizzi servizi di sostegno all’autodistruzione. E deve venire, deve venire finalmente, deve venire presto, il tempo in cui nessuna morte potrà più essere irrogata dalla mano pubblica e questa prospettiva dovrà ripugnare a ogni privata coscienza. Questo è vero "diritto civile". Gli Stati e le loro leggi devono servire la vita e alla vita delle persone, e devono smetterla – una volta per tutte – di dispensare in diverse forme quella morte che troppo a lungo nella storia del mondo hanno seminato, organizzando e armando il lato oscuro della nostra umanità.