Israele-Hamas. Il dilemma dei sauditi
Più Hamas e Israele si scontrano, più questa nuova, vecchia guerra rischia di aprire il “vaso di Pandora” del Medio Oriente. E ci sarebbe un primo sconfitto illustre: Mohammed bin Salman, il principe ereditario dell’Arabia Saudita, che fino a un paio di settimane fa, passeggiando su una spiaggia del Regno, dichiarava a una televisione americana che «ogni giorno ci avviciniamo di più a un accordo» con Israele. L’attacco, con modalità terroristiche, della milizia di Hamas a Israele è avvenuto infatti mentre Riad stava normalizzando i rapporti diplomatici con Israele, di concerto con gli Stati Uniti. Nel 2020, Emirati Arabi Uniti e Bahrein avevano già siglato gli Accordi di Abramo. Dopo l’invasione russa dell’Ucraina e l’acuirsi della competizione fra statunitensi e cinesi, l’Arabia Saudita è fin qui rimasta in vantaggioso equilibrio tra Stati Uniti e Cina, Europa e Russia.
Il Regno saudita ha ostentato il nuovo corso multipolare della sua politica estera ben consapevole che nessuno, nemmeno la Casa Bianca, può oggi imporgli la scelta dei partner. Quello che i sauditi non possono permettersi, però, è un’imprevedibile guerra in Medio Oriente, non ora che l’economia è la loro priorità. Certo, i conflitti fanno sempre aumentare il prezzo del greggio, riempiendo così le casse di Riad. Però “Vision 2030”, ovvero il piano saudita di trasformazione economica “oltre il petrolio”, necessita di stabilità regionale, poiché si basa su investimenti stranieri, infrastrutture, grandi eventi, turismo. Il protrarsi del conflitto tra Hamas e Israele, invece, ridarebbe fiato a contrapposizioni, rivalità (e terrorismo), minando il dialogo e la cooperazione economica.
La guerra mette dunque in crisi la strategia regionale dei sauditi e, ancor prima della normalizzazione con Israele, potrebbe far saltare la distensione con l’Iran. Hamas è infatti un attore finanziato, armato e addestrato da Teheran e ci sono altri attori armati filo-iraniani, come gli Hezbollah libanesi e forse le milizie sciite siriane, che potrebbero entrare nel conflitto. Inoltre, Mohammed bin Salman stava utilizzando il possibile riconoscimento di Israele per rinegoziare la relazione speciale con gli Stati Uniti, al fine di ottenere dagli americani garanzie di sicurezza in caso di attacco e sostegno al programma nucleare per scopi civili. Il congelamento della normalizzazione con Israele rallenterebbe tutti questi dossier, lasciando i sauditi più vulnerabili. Ma il conflitto Hamas-Israele è un grande problema anche per gli Stati Uniti che, concentrati sul fianco est della Nato e sull’Indo-Pacifico, necessitano degli alleati regionali, a partire da Arabia Saudita, Emirati Arabi e Israele, per gestire la sicurezza in Medio Oriente. È per questo che la Casa Bianca ha investito politicamente molto negli Accordi di Abramo, sperando di stabilizzare la regione. E utilizzava le trattative con Riad sul riconoscimento di Israele per ostacolare, o almeno limitare, l’avvicinamento del Regno saudita alla Cina.
Stavolta, Mohammed bin Salman, che ha subito invocato la de-escalation tra le parti, faticherà a imporsi come mediatore: i palestinesi hanno capito che per Riad non sono più la priorità. Mentre Ia violenza cresce, l’Arabia Saudita si trova scomodamente a metà del guado politico: interlocutore, di fatto, degli israeliani –dunque oggetto degli strali di Hamas e di Hezbollah che gridano al tradimento della causa palestinese- ma ancora senza un accordo ufficiale con le autorità israeliane. Di fronte a questo scenario, Mohammed bin Salman ha due scelte possibili e sono entrambe difficili. Ritornare sui propri passi e distanziarsi da Israele, mostrando però così una leadership indebolita, sul piano regionale e interno. Oppure perseguire gli obiettivi stabiliti continuando e, nel lungo periodo, completando la normalizzazione con gli israeliani, nonostante i costi d’impopolarità che ciò comporterebbe, specie dopo l’assedio di Gaza. Quest’ultima sarebbe però l’opzione più coraggiosa, quella in grado di segnare davvero un punto di svolta politico, con il rifiuto netto di ogni violenza terroristica. Un passo avanti nella complessa e davvero lunga via della pacificazione.