Opinioni

Il destino di Jana. Due chiacchiere con una portinaia ucraina

Marina Corradi martedì 13 giugno 2023

Una mattina, a Milano. Incrocio per strada Jana, ucraina, portinaia in un palazzo più in là. Non ha ancora cinquant’anni, ma ha figli, nipoti e la madre in una zona non così lontana dal Donbass. La madre, anziana, non vuole per nessuna ragione partire. Posso capirla: a ottant’anni la tua vita, e forse anche la tua morte, sono dove sei nata. «Ma faccia venire qui almeno le mamme con i bambini», dico a Jana – buon italiano, sempre sorridente. L’ho vista piangere solo la mattina dell’invasione russa. Lei mi guarda: « Andarsene? Lasciando là i mariti al fronte, i vecchi, e gli amici? E andare, dove? E poi, vivere: di cosa, come? Signora – mi dice, con un sorriso ma quasi con un mite rimprovero, come parlando a qualcuno che non capisce davvero – provi a immaginarsi lei di dover partire, con i figli e i nipoti piccoli...».

La frase scambiata in questa Milano in pace, con la gente seduta a bere il caffè al bar, produce su di me l’effetto di una grossa crepa che si apra, improvvisa, nera, in un muro bianco e solido della propria casa. Andarsene. Bombardano, o la centrale nucleare a cento chilometri è fuori controllo, oppure è stata distrutta una diga. Decidere: scappare, o morire. E allora col cuore in gola, da sola magari perché il marito è in guerra, raccattare due cose in casa e lasciarne indietro cento, di tanto care. Spingere i bambini sull’auto, caricare due borse di vestiti, coperte, biscotti, latte, acqua. Tre giocattoli. Carta di credito, contanti. Il cane, naturalmente: su questo i bambini non hanno sentito ragioni, e anche tu non ce l’avresti fatta, a lasciarlo lì. Il cellulare – ma ti accorgi all’ultimo che hai dimenticato il caricatore. Risali le scale di corsa, riapri la porta. La tua casa sembra ti guardi. Metti in moto. Nello specchio retrovisore la casa ti guarda ancora.

L’asilo, la scuola, la chiesa ti sfilano davanti, e restano lì. Il serbatoio è meno che a metà, troverai un distributore? E dove dormirete, stanotte? Andarsene, verso un Paese straniero. I tuoi genitori restano. Li rivedrai? I bambini, dietro, muti. Intoni una canzone per distrarli. Vorresti, adesso, sentirli strillare e litigare come al solito. Invece, quanto zitti stanno. La strada principale è interrotta, devi cercarne un’altra. Accanto a te da altre auto stipate all’inverosimile vengono pianti di neonati, sguardi attoniti di vecchi. Al volante, madri sole come te. Le strade bombardate sono piene di buche. A un distributore c’è una lunga coda, ti metti in fila. Purché, al tuo turno, ci sia ancora benzina. Fermarsi al bar di un paesino. Mangiano, i tre, ma continuano a tacere. Hanno capito tutto, pensi. Anche la piccola, tre anni, non fa un capriccio. È dalla tua faccia, che hanno capito? Ti costringi a sorridere come si andasse in montagna, in gita. Verso la frontiera il traffico si fa lento. Poi, fermi, in coda: e al confine mancano chilometri. « Dormiamo in auto stanotte», dici ai figli, come annunciassi un nuovo gioco. Loro sorridono, si avvolgono nelle coperte, abbracciati al cane. È buio ormai, ma non è un buio normale. Quel buio è dentro, è l’angoscia di chi non ha un tetto, non sa dove andare. Ci accoglieranno poi, in quel Paese straniero? Avremo una casa? E di cosa vivremo? E i bambini, la scuola, in una lingua ignota? Nella notte alla frontiera è come se il tuo mondo ti scivolasse fra le dita, perduto.

Andarsene. Che lo facciano in milioni, da Ucraina o Siria o Afghanistan, ormai ci pare normale. Per “loro”, per gli altri. «Signora, s’ immagini di dovere partire lei con i suoi nipoti, due anni uno, quattro mesi l’altro...» La voce di Jana è gentile, per niente astiosa, in questa nostra vertiginosa diversità di destini. Ma quella crepa che mi si è aperta dentro mi ha fatto almeno minimamente intuire. Andarsene: bombe, centrali nucleari, dighe, sembra ovvio. Provate, però, a immaginare.