Ristretti margini di manovra. Il debito pubblico è fatto anche di rassegnazione
Se negli Stati preunitari la dimensione dei bilanci pubblici era piuttosto contenuta e il debito complessivo si commisurava a circa il 20% del Pil dell’intera Penisola, con l’unificazione, immediatamente, la spesa statale raggiunse picchi elevatissimi (14% del reddito nazionale: un’enormità, considerata la struttura sociale dell’epoca). Il processo di unificazione di un Paese disuguale richiese sforzi ragguardevoli, per l’Italia ciò significò nascere con una finanza pubblica squilibrata. Dal 1861 a oggi il rapporto tra spesa dello Stato e prodotto è aumentato costantemente, come negli altri Paesi occidentali. Questo rapporto rimase in linea con la media europea dal secondo dopoguerra fino agli anni Ottanta, quando intervenne una divaricazione che lo sospinse verso il 50% (è significativo che nel 1960 quel rapporto fosse pari al 30%: era pari al 32% nel 1938, al 30% nel 1920).
È stato osservato che la difficoltà di rispettare il vincolo di bilancio trova nella storia dell’Italia contemporanea più d’una conferma. I disavanzi delle pubbliche amministrazioni sono stati frequenti, con le notevoli eccezioni dell’epoca della Destra Storica, del periodo 18991909 e degli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso. Il premio al rischio sui titoli emessi dallo Stato è risultato spesso elevato sia nell’Ottocento sia nel Novecento. Il debito pubblico è stato accumulato in quattro fasi: 18761897, Prima Guerra Mondiale, Seconda Guerra Mondiale, anni Ottanta fino alla vetta del 1994. Esso ha avvicinato o superato la soglia del 120% nel 1897, nel 1919, nel 1943, nel 1994 e, dopo il crollo della domanda aggregata, seguito alle crisi del 2008-2009 e 2012-2014, dal 2012 a oggi. Il problema della sostenibilità del debito pubblico pertanto ricorre nella storia economica italiana dall’Unità ai giorni attuali. Se è vero che nemmeno nei periodi più bui della nostra storia il problema è esploso in una crisi del debito interno e mai in Italia sono state attuate forme di default, è altrettanto vero che esso ha avuto conseguenze negative sull’economia reale, acuendone l’instabilità (inflazione, recessioni), rallentandone la crescita e la dinamica della produttività, accentuando le sperequazioni, esercitando un ruolo non positivo sulle aspettative, restringendo i margini di manovra della politica economica.
Dopo il ventennio d’oro della nostra economia, disavanzi strutturali di bilancio apparvero negli anni Settanta a seguito dei forti choc che investirono l’economia italiana (fiammata salariale, crisi petrolifera, crollo del sistema monetario internazionale, esplosione della violenza terroristica) e divennero anormalmente grandi nella seconda metà del decennio, per i vent’anni successivi. In connessione con il negoziato per l’Unione Europea, negli anni Novanta vi fu una presa di coscienza dei rischi derivanti da una finanza pubblica disordinata. Dal 1994 al 2007 il rapporto debito/Pil si è ridotto, anno dopo anno, dal 121,2% al 103,1%. Ciò è avvenuto nonostante una dinamica della crescita flebile. Le terribili recessioni che hanno travolto la nostra economia nel 2009 e nel 2012 hanno sospinto il rapporto oltre il 132%. Per formulare le linee d’azione in grado di ricondurre verso un assetto più equilibrato la nostra finanza pubblica non è possibile astrarre la questione dal contesto e operare come se fossimo in laboratorio, bensì occorre inquadrare il problema all’interno dell’attuale cornice economica e sociale italiana, individuando soluzioni realistiche, dopo aver definito la scala delle priorità e nella consapevolezza che ogni decisione di politica economica esercita effetti su altre variabili rilevanti per l’intero corpo sociale. La cornice. L’Italia oggi è caratterizzata da un elevato rapporto debito/Pil (132%), avanzo primario elevato (1,8% rispetto al Pil, il più alto dei paesi Ocse dopo quello tedesco), elevata spesa per interessi (nonostante i tassi d’interesse favorevoli, 3,6% rispetto al Pil), indebitamento netto rispetto al Pil soddisfacente (1,8%), bassa crescita (1,4%), stasi della produttività, alta disoccupazione (11%), alta pressione fiscale (percepita e reale, prossima al 43% del Pil), alta evasione, inflazione moderata (1,2%). La società italiana soffre di una comprensibile crisi di fiducia, è impaurita, sfilacciata. Ricomporre la società, ridarle fiducia, è compito primo, precipuo, della politica.
L'alto rapporto tra debito pubblico e Pil espone il Paese a rischi di instabilità finanziaria, rappresenta un fattore di debolezza politica sullo scacchiere internazionale, contribuisce a smorzare il ritmo di sviluppo dell’economia. Occorre affrontare il problema, la cui soluzione tuttavia non può e non deve costituire un ulteriore elemento di frantumazione di un tessuto sociale divenuto fragile. Il tentativo di ridurre lo stock del debito pubblico non sembra poter passare attraverso l’introduzione di una patrimoniale, l’inasprimento della pressione fiscale o il taglio di servizi pubblici erogati ai cittadini, in quanto queste misure, oltre a esercitare un impulso depressivo sul denominatore del rapporto che ne attenuerebbe gli stessi effetti di stabilizzazione, rischierebbero di sortire conseguenze gravi su altri fondamentali obiettivi economici e sociali del Paese.
L'alienazione del patrimonio pubblico potrebbe non essere sufficiente a generare risorse tali da consentire un taglio significativo dello stock del debito; qualora attuata, essa richiederebbe in ogni caso il mantenimento di una gestione virtuosa del bilancio per non dissiparne i risultati dopo pochi anni. I margini di manovra, insomma, sono stretti, tuttavia la buona politica ha la possibilità di ridare slancio alla società italiana e, allo stesso tempo, riportare verso un assetto più equilibrato il rapporto tra debito e Pil. L’indebitamento netto (1,8%) dovrebbe essere portato verso il pareggio, recuperando evasione e contenendo spesa pubblica corrente non socialmente utile (acquisto di beni e servizi – agendo prevalentemente sui prezzi –, trasferimenti). Oltre che sui saldi, bisognerebbe agire sulla composizione e sulla qualità della spesa, utilizzando parte dei fondi recuperati (3 punti di Pil in un paio d’anni) per innalzarne la componente ad alto moltiplicatore (investimenti) e per dare un segnale di riduzione della pressione fiscale. In questa maniera, con il bilancio pubblico tendente al pareggio, si stabilizzerebbe lo stock di debito e, con un’inflazione all’1,3%, si potrebbe attivare una crescita nominale del Pil vicina al 3% tale da riportare in pochi anni il livello del debito intorno al 100% del prodotto nazionale. Dobbiamo cambiare il nostro modo di ragionare. Ci siamo assuefatti a due decenni di stagnazione e abbiamo rinunciato a pensare alla possibilità di crescere a tassi superiori all’uno virgola per cento: dobbiamo respingere questo atteggiamento mentale e tornare a essere arbitri del nostro destino.
*Presidente dell’Associazione Guido Carli
(quattordicesimo intervento di una serie)
• Una parte del debito va messo in comune in Europa di Angelo De Mattia
• Conti italiani. Un'operazione-verità sul debito pubblico per ottenere giustizia di Tommaso Valentinetti• L'origine del problema. Ma il debito è frutto di interessi (ed evasione) di Marco Bersani
• Che pesi l'Unione: la verità sul debito e un piano utile di Leonardo Becchetti
• Il debito, frana incombente. Meglio evitare equilibrismi di Benedetto Gui
• Il tema eluso nel dibattito elettorale. Debito, l'ora del coraggio di Francesco Gesualdi• Uscire dalla schiavitù del debito. Una «patrimoniale» sull'evasione palesedi Rocco Artifoni
• Finanze pubbliche e mercati. La speculazione finanziaria ha fatto esplodere il debito di Mario Lettieri e Paolo Raimondi