Opinioni

Settimana Sociale. A Trieste batte il cuore dei giovani. Vogliono partecipare

Viviana Daloiso venerdì 5 luglio 2024

Vogliono partecipare. E credono convintamente che qui a Trieste si possa fare. Per questo sono venuti, raccogliendo volantini in parrocchia, seguendo il filo di un passaparola su Internet o reduci dall’esperienza del servizio civile che li ha catapultati nel mondo dell’associazionismo e del Terzo settore che non conoscevano. Jacopo, Claudia, Marta, Eugenio: il cartellino giallo con la foto e il coraggio di dire la loro sui grandi temi di cui altrove si parla e si decide senza di loro. Perché? «Perché non ci sono spazi, perché nessuno ascolta, perché si urla e ci si scontra su tutto senza risolvere mai niente».

Vengono da Brescia, Cuneo, Catanzaro, Messina. C’è chi insegna (precario) matematica alle medie, c’è chi lavora allo Sportello immigrazione di un ufficio comunale, chi s’è inventato una startup. Volti e storie dell’Italia giovane, quella di cui la politica si riempie la bocca e che poi viene sistematicamente esclusa. Non a caso agitano le mani e alzano la voce ai tavoli di confronto allestiti nel grande hangar del Generali Convention Center di Trieste: per la prima volta possono prendere la parola e spiegare che no, la realtà non è quella dei tiggì e delle staffette istituzionali che troppo spesso si affacciano tra i quartieri delle città per le emergenze o per le più o meno transitorie soluzioni con cui tentare di tamponarle. La realtà è una classe di studenti di Fossano tra cui in tanti non possono praticare uno sport o andare dal dentista, figurarsi mettere in conto di andare avanti a studiare all’università.

La realtà sono gli ingranaggi incomprensibili di una burocrazia che impedisce a una giovane di origini africane che lavora a Montichiari, pure con regolarissimo permesso di soggiorno, di trovare una casa in affitto che potrebbe permettersi di pagare col suo stipendio. O, ancora, il calvario d’un laureato a cui tocca partire da Lamezia perché non c’è ombra d’un lavoro qualificato nel raggio di 200 chilometri e non ha senso accontentarsi.

La Settimana sociale non cambia le cose, ma è quello spazio in cui per la prima volta farle venir fuori senza essere ignorati, giudicati come rivoluzionari o sognatori, peggio strumentalizzati, arruolati. I giovani lo capiscono subito: ai tavoli sono protagonisti, il Comitato organizzatore ha voluto che siano loro a moderare il dibattito e a condensarne le conclusioni che emergeranno alla fine dei lavori indicando al mondo dell’associazionismo cattolico (e non solo) la rotta per i prossimi anni.

E loro ci sono, con competenze inaspettate che lasciano i “grandi”, dai vescovi ai consiglieri comunali ai docenti universitari, senza parole e che – capita in più punti del salone principale – li coinvolgono in discussioni complesse sul lavoro, l’ambiente, la didattica, la disabilità. Chiamatela democrazia: creare un’occasione di partecipazione, spalancare le porte per permettere a tutti di entrare, confrontarsi nell’ambito di regole condivise, ascoltare, intervenire, trovare punti comuni per costruire proposte capaci di impattare sul territorio in cui si vive.

Sembra difficile, a Trieste questa settimana è la cosa più naturale del mondo.

E i giovani ne sono protagonisti come forse non è mai successo prima. Una notizia che dovrebbe aprire i giornali, nel Paese che si lecca le ferite profondissime d’una tornata elettorale digiuna di votanti e d’un panorama partitico dove le nuove leve sembrano essere solo quelle affiliate ai pericolosi estremismi che credevamo morti e sepolti. Titolo: i giovani non sono (solo) pericolosi pasdaran, non agitano senza consapevolezza le bandiere della Palestina nelle piazze, non stanno con le mani in mano sulle panchine a ingrossare le file delle baby gang o dei facili bersagli degli spacciatori, non si esauriscono nelle catene dei “mi piace” ai selfie sui social network. I giovani non sono quelli che pensiamo o che vogliamo pensare perché non abbiamo il coraggio o la forza di prendere in considerazione la sfida di costruire un’Italia che sia a misura loro, e non solo nostra.

Ridare quell’anima alla democrazia invocata mercoledì dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella vuol dire smettere di ridurli a quello che ci fa comodo che siano per lasciare a loro lo spazio di costruirla in futuro.