Opinioni

Dibattito. Scorsese: sono cresciuto in strada ed è lì che la fede va vissuta

venerdì 16 agosto 2024

Martin Scorse e padre Antonio Spadaro

La sera del 3 agosto scorso sulla punta estrema a nord della Sicilia, presso Capo Peloro, l’Horcynus Festival ha realizzato un dialogo con Martin Scorsese, collegato dalla sua casa di New York, e padre Antonio Spadaro, sottosegretario del Dicastero vaticano per la cultura e l’educazione, presente sul palco. L’occasione è stata la presentazione del libro Dialoghi sulla fede (La nave di Teseo) nel quale il regista e il gesuita traducono il loro dialogo sulla vita, la fede e il cinema che dura da oltre otto anni. La conversazione è stata animata da Gaetano Giunta e Scilli Piraino della Fondazione Messina, e da Franco Jannuzzi, direttore artistico del festival, i quali hanno rivolto le loro domande a Scorsese e Spadaro. Riportiamo il dialogo avvenuto sulla spiaggia di Cariddi rivolta verso Scilla. Il libro ha per titolo “Dialoghi sulla fede” (La nave di Teseo, 162 pagine, 16 euro).

Mister Scorsese, qual è il suo rapporto con la fede? Qual è stata la sua esperienza di fede sin da ragazzo fino a oggi?

Mi sono confrontato con la fede sin da bambino. I miei genitori non erano realmente praticanti, ma quando mi sono trasferito a New York City, nella zona italo-americana di Little Italy, sono stato mandato a studiare in una scuola elementare delle Suore della Carità. Avevo sette o otto anni. L’area in cui vivevamo era un luogo difficile: Third Avenue, che è conosciuta come The Bowery. Adesso è davvero elegante, ma al tempo era conosciuta come «il miglio del diavolo ». Mulberry Street, che era alla nostra sinistra – Bovery era alla nostra destra –, era conosciuta come «il miglio degli omicidi». I miei genitori hanno fatto grandissimi sforzi per cercare di vivere una vita dignitosa, ma noi eravamo lì, in mezzo a tutto questo, e l’unico posto in cui davvero riuscivo a trovare un rifugio, un senso di pace e di protezione, era all’interno della Cattedrale, oggi chiamata Old Saint Patrick. Crescendo nelle strade, ho cominciato a capire che avere fede non era una cosa da vivere solamente all’interno della chiesa: non hai fede dentro la chiesa, dentro l’edificio e poi, invece, quando vai in strada è diverso. Non è così: deve essere vissuta nella vita quotidiana. Bisogna lavorare sull’imitazione di Cristo al di fuori del perimetro della chiesa. Ecco, vivevo in tensione tra la strada e la chiesa. Mi chiedevo: come si può vivere la fede in un mondo così conflittuale fatto di violenza e tensioni? Così ho imparato che cosa è la fede, poi l’ho persa, poi ho dubitato, poi sono tornato alla fede. Oggi, a distanza di tempo e guardando alla mia vita, ammetto di aver ricevuto il dono di saper girare film, e pure il dono di riuscire a trovare la fede in quello che faccio. È un dono di Dio. E mi rendo conto che si tratta di un dono potente perché coi film tocchi la sensibilità di moltissima gente. Ultimamente ho cominciato a capire, dopo un periodo di oltre trent’anni, o forse di più, che la mia è più che una «convinzione» nella fede: è una «fiducia» nella fede. Ho fiducia di aver fede. Ci sono dubbi, ma la mia è stata una ricerca costante, è stato un costante tentativo di vivere con fede. La sua onda ti accompagna durante il giorno, nella stanza buia in cui stai cercando di accendere la luce: è una questione di fiducia. Quando ero ragazzo mi ero accomodato nei rituali in chiesa, ma no: ho capito che la chiave della fede è fuori dall’edificio. La chiave è considerare la fede come la forza più importante che guida la tua vita. Fuori, non dentro.

Padre Spadaro, che cosa l’ha colpita di più del modo di Martin di guardare la realtà nel suo cinema?
Quello che ho cercato nella conversazione con Martin è capire come si è formato il suo sguardo di uomo e di regista. È stata un’avventura straordinaria. Ci conosciamo da otto anni, e in questo tempo la nostra conversazione mi ha profondamente segnato nel modo di guardare la realtà e anche nella mia vita spirituale. Uscendo da casa sua, specialmente la sera, costeggiando Central Park, più volte ho percepito il desiderio di meditare sulle cose che ci eravamo dette, su alcune sue intuizioni che mi avevano colpito. Lui è nato a Little Italy, a Elisabeth Street, dove c’era una vita violenta per strada e lui era un ragazzino inquieto che voleva andare per strada con gli altri ragazzini. Lo ha appena detto. Lui però era malato di asma, quindi poteva stare in strada, ma fino a un certo punto. Spesso guardava la realtà dalla strada dal balcone perché respirava male e non poteva scendere. Gli mancava il respiro. E questo, come dice lui stesso, rispondendo a una mia domanda nel libro, l’ha protetto da un atteggiamento da bullo, da una forma di «maschilità tossica». Una persona che ama la realtà, ama la strada, e guarda la realtà dalla finestra, forma naturalmente il suo sguardo alla cinepresa, genera un «cineocchio». Quindi ecco le fonti del suo sguardo: la strada e la finestra. D’altra parte, frequentava la chiesa, era chierichetto, anzi è pure entrato in seminario e poi è andato via, si è reso conto che non era la sua strada. L’esperienza di chierichetto gli ha permesso di venire a contatto con il mistero della messa. Una cosa che mi ha colpito moltissimo è il fatto che lui da bambino entrava in chiesa, c’era la messa, lì c’era il corpo e il sangue di Cristo. Poi finita la messa, usciva per strada e si accorgeva che non era cambiato niente. E si chiedeva: «com’è possibile che qui c’è il sangue e il corpo di Cristo e nel mondo non è cambiato niente?». Si tratta di una intuizione mistica, di quelle che può avere un bambino, ma fortissima. Allora lui matura la convinzione che «non rimedi ai tuoi peccati in chiesa», come ascoltiamo nel suo film Mean Street. «La transustanziazione deve avvenire anche per strada», mi ha detto. Il suo sguardo si forma alla luce di un grande mistero che lui percepisce come tale, e nel confronto diretto con la strada dove c’è violenza. I preti e i gangsters hanno plasmato il suo sguardo. Questo contrasto gigantesco lo ha formato profondamente: la tensione tra la bellezza della liturgia e la violenza della strada. E questa tensione ha sviluppato l’immaginario dei suoi film, oltre che il suo sguardo sulla vita. Martin me l’ha detto anche citando Marilynne Robinson, che è una delle più grandi scrittrici americane viventi sulla quale sta lavorando per un film: «Insieme siamo brillantemente creativi e brillantemente distruttivi».

Maestro, il tema della violenza, che spesso incontriamo nei suoi film, ha riguardato tanti artisti. Nel libro viene citato per esempio Dostoevskij. Perché questa presenza della violenza nei suoi film? Si può raccontare la violenza senza farla vedere in maniera esplicita?

Come ho già detto, sono cresciuto in un contesto di violenza, anche se non ne ho fatto un’esperienza piena. Ero costantemente conscio del fatto che ci fosse. Era un fattore costante, una cosa seria. E così non andava mai presa con leggerezza. Davanti alla violenza mi interrogavo sulla nostra natura umana. Ma che diavolo siamo noi? Siamo fondamentalmente buoni o cattivi? Siamo esseri capaci di amore o capaci di violenza? E consideravo anche la rabbia, l’autodifesa, l’egoismo, l’intolleranza, la rabbia, l’odio. Ho dovuto vivere con un senso diffuso di violenza, e dunque anche sperimentando quella tipica eccitazione che alla violenza si accompagna. Sì, c’è un senso di eccitazione nella violenza, c’è un elemento di seduzione. E tu lo provi finché non arrivi a capire che non è questo il modo giusto di vivere. In un film, in un romanzo, in un quadro, bisogna affrontarla direttamente, in maniera esplicita, per comprenderne la seduttività. Se no non la capisci, non la fai capire. Non può essere affrontata esclusivamente attraverso un artificio artistico, in maniera grottesca, su cui magari ridere e via. La violenza è qualcosa da esplorare con serietà. Penso che si debba capire che la violenza faccia parte della nostra natura. Chi non è abituato a considerarla come parte di sé può restare scioccato quando la scopre. Ci si deve confrontare con la violenza. All’inizio io non sapevo come farlo, ma sentivo che nei film dovevo mostrarla per com’è, in modo diretto, crudo. Aggiungo che, a volte, ne ho pure percepito e mostrato un certo aspetto umoristico, come, ad esempio, in Goodfellas. Ho visto che a volte le persone si comportano davvero molto male, ma altre volte hanno molta compassione e amore per gli altri. La fede ci aiuta a capire che possiamo evolvere in creature che sono più inclini ad essere compassionevoli e amorevoli, piuttosto che essere arrabbiate e violente. E questo deve essere dimostrato con le azioni e non con le parole.

Papa Francesco ha detto che “quando a una persona manca la poesia la sua anima zoppica”. Secondo lei, mister Scorsese, c’è un rapporto tra arte e ricerca spirituale? Nel libro di dialoghi con padre Spadaro lei dice che l’arte e il cinema sono un tentativo di dare senso all’esistenza. Nel libro si parla anche della grazia. Che cos’è la grazia? Cosa significa parlare della grazia in un mondo dominato dal razionalismo economico basato su ipotesi di perfetto egoismo?

Sì, penso che avere il dono di poter creare arte sia qualcosa di spirituale. Penso che sia cercare di dare forma alla bellezza del mondo che Dio ci ha dato, senza però mai escludere gli aspetti più complessi e difficili della vita. L’atto stesso della creazione è un’imitazione dell’azione di Dio e per questo ci permette, in un certo senso, di essere vicini a Lui. Se hai ricevuto la grazia di avere l’abilità di fare arte – cosa che a volte è anche un tormento –, o la benedizione di creare qualcosa a partire dalla vita che ti circonda, questo è sicuramente un fatto spirituale. Anche mentre lavoro, mentre realizzo un film o uno spot pubblicitario, il lavoro per me è come una preghiera, perché sto facendo qualcosa per cui sono stato creato da Dio. Ecco perché per me un film non è solamente un film, ma è un’onesta esplorazione dell’esistenza, un’esplorazione della nostra anima. Imparo ad essere una persona migliore mentre lavoro ad un film e, nel farlo, il film esprime questo desiderio, questo mio desiderio di diventare migliore. Se tramite la creazione e la visione del film si raggiunge una pace interiore, questa è una grazia. Non so in che altro modo chiamarla, perché ho avuto molte esperienze personali di questo genere nella mia vita.

Torniamo sui personaggi dei film di Martin Scorsese. Padre Spadaro, che cosa l’ha colpita di questi personaggi?

Nei film di Scorsese la cosa che mi colpisce costantemente è l’ambiguità dei personaggi, nel senso che lui, per lo più, non dipinge il mondo in bianco e nero, dove tu sai sempre dove sta il bene e dove sta il male. Vedi un film, e la tua coscienza entra sempre in conflitto con sé stessa: non puoi mai rilassarti e guardare un’opera di Martin Scorsese uscendone tranquillo. Vedere un suo film è una ginnastica dello spirito, della conoscenza. Faccio un esempio, il protagonista di Taxi Driver commette una strage, ma anche si innamora e vuole salvare una ragazza che è dentro un giro di prostituzione. Da una parte si vede un assassino, dall’altra si vede la delicatezza del personaggio e si rimane colpiti. La coscienza non sta tranquilla: un po’ si identifica col personaggio, ma poi sente anche repulsione. Condanna e tenerezza vanno di pari passo. Un altro esempio clamoroso è Killers of the Flower Moon, tre ore e venti di agonia spirituale, diciamo così. Ernest è un ragazzo giovane che si innamora di una ragazza indiana e la sposa per amore. Ma, d’altra parte, lo zio vuole che la sposi per denaro. Queste due dimensioni si mescolano tra di loro, per cui Ernest finisce per avvelenare lentamente la moglie per averne l’eredità, ma è chiaro che la ama. La ama e la avvelena, ed entrambe le cose sono vere. Questa tensione raggiunge l’apoteosi nel momento in cui addirittura mette una dose di veleno nel suo bicchiere di whisky e la beve pure lui. È come se facesse la comunione: è un gesto eucaristico. La coscienza è un continuo dilaniarsi. Da una parte si sente che Ernst è un ragazzo un po’ naif, buono, capace di amare, però dentro di sé c’è una mostruosità che emerge naturalmente. Così anche in Silence, dove si racconta la storia dei gesuiti in Giappone. Padre Ferreira giunge ad abiurare la sua fede. Padre Rodrigues non vuole, e preferirebbe essere martirizzato, ma è costretto a farlo per salvare la vita ai cristiani. Uno abiura e l’altro anche. Rodriguez sarà chiamato da Cristo stesso a calpestare il suo volto per liberare gli altri. Questa tensione continua tra bene e male, giusto e sbagliato, coinvolge completamente lo spettatore, lo travolge, e questo trova una spiegazione in un’espressione che Martin usa nel nostro libro, quando distingue tra ciò che è problema e ciò che è mistero: nel problema c’è una risposta che esaurisce il problema, nel mistero la risposta non esaurisce mai il mistero.

Mister Scorsese, nel libro lei afferma che, dopo aver visto Il Vangelo secondo Matteo, è rimasto profondamente colpito. Voleva fare un film su Gesù, ma ha rinunciato proprio perché era uscito il film di Pasolini. Poi ha realizzato L’ultima tentazione di Cristo, poi Silence e oggi sta preparando un nuovo film su Gesù. Chi è per lei Gesù? Da cosa nasce questa esigenza di raccontare e ricercare questa figura, di tornare su questo personaggio?

Quando ho visto il Vangelo secondo Matteo di Pasolini, ero commosso ed entusiasta: è un’opera d’arte meravigliosa. A quel tempo ero ancora molto giovane e mi stavo ancora aggrappando a una visione infantile della fede: ed è qui che è cominciato il trauma del cambiamento. Il mio sentimento era di fare una versione dei Vangeli, o di uno dei Vangeli, e ambientarla a Manhattan nel 1960. Questo quando avevo 17 o 18 anni. Quando è uscito il film di Pasolini, ho capito le caratteristiche del cinema autentico. Tutto ciò mi ha dissuaso dal fare il film che intendevo fare. Dovevo trovare la mia strada, che allora non conoscevo. Significava vivere la mia vita per decidere come avvicinarmi alla storia di Gesù, non necessariamente aderente completamente ai Vangeli. Volevo romanzare la storia di Gesù. Mi sono chiesto: che cosa sto cercando veramente? E ho trovato la risposta nel libro L’ultima tentazione di Cristo di Nikos Kazantzakis. L’ho trovata nell’unità di spirito e di carne, di pienamente umano e pienamente divino. E così, soprattutto negli anni ‘70 e all’inizio degli anni ‘80, pensavo che si potesse esplorare, che si potesse provare ad entrare in un altro modo di pensare a Gesù. Ecco per me la domanda: chi è Gesù? Grazie allo stile, Pasolini ha reso Gesù immediato, ma io volevo renderlo immediato oltre lo stile. Quindi, per me questo sarebbe stato un nuovo modo di guardare a Gesù, in contrasto con ciò che stava accadendo all’epoca, soprattutto in America, dove movimenti molto forti parlavano sempre di lui. I loro aderenti si comportavano come se conoscessero Gesù, ma erano fondamentalmente ed estremamente intolleranti, pieni di odio e di rabbia. Penso che molti non cristiani, questo rabbioso e fondamentalista hanno pensato che questo fosse il volto del cristianesimo. Io sapevo che non era così. Il cristianesimo non è intolleranza, non è odio e non è rabbia, e quindi ho voluto esplorare la figura di Gesù. Ho pensato che il Gesù che avremmo avuto in questo film sarebbe stato quello che avrebbe provato compassione per un povero che sta morendo di droga, qui, per strada, nel cuore della notte sull’Eighth Avenue. A volte le persone arrivano al punto di autodistruggersi, a un punto in cui dicono di essere al di là di una possibile redenzione, e pensano che Gesù non abbia alcun interesse a parlare con loro, a guardarli. Ebbene io ero convito che mai Gesù si sarebbe voltato dall’altra parte. E fare il film è stata una grande esperienza, perché sono successe così tante cose durante i 10-12 anni del percorso fatto per realizzarlo! Ma questa è tutta un’altra storia. Poi però, quando tutto è finito, ho scoperto che dovevo andare più a fondo: dovevo trovare, dovevo andare più a fondo per cercare Gesù. Non bisognava fermarsi solo all’iconografia di Gesù, ma si doveva andare più in profondità, e per questo l’arcivescovo episcopaliano di New York, la notte in cui ha visto il film L’ultima tentazione di Cristo, mi ha regalato il libro Silence. Quando ho letto il libro mi ci sono voluti altri 15-16 anni per iniziare a capire come farne un film, perché, alla fine, quando Gesù dice a padre Rodriguez di calpestare la sua immagine, lui capisce che si assume l’umiliazione di ciò che potrebbe essere un tradimento per una comprensione più profonda del mistero dell’amore di Dio. La realizzazione di quel film è stata un’esperienza molto speciale per me e per molte persone che lo stavano girando con me. Da quel momento le loro vite sono cambiate. Si trattava di abbracciare il mistero dell’amore di Dio: questo è quello che pensavo che avremmo potuto esplorare nel film.

Padre Spadaro, questo libro è la testimonianza di otto anni di incontri e di dialoghi, cui centrale è stata la figura di Cristo. Che cosa ti colpisce del modo in cui Martin Scorsese si relaziona a Cristo?

Nel libro alla fine troverete una prima stesura del possibile film su Gesù che Martin realizzerà, ed è bellissima. Adesso siamo a un livello molto diverso di stesura. Come è nata questa vicenda? È nata perché avevo scritto un libro, che è stato presentato all’Horcynus Festival l’anno scorso, Una trama divina. Gesù in controcampo, sulla figura di Cristo, che ha avuto la prefazione di Papa Francesco. Il Papa, alla fine di questa sua prefazione, ha rivolto un appello agli artisti che si chiudeva così: «fateci vedere Gesù». Era davvero molto bella. L’ho tradotta e l’ho inviata a Martin. Dopo circa due settimane lui mi ha risposto dicendo più o meno: sento questo appello rivolto a me. Sento che devo rispondere, ma io non sono un filosofo, non sono un teologo, sono un regista; quindi, ti mando una prima bozza di sceneggiatura di un possibile film su Gesù. E questa bozza si trova, appunto, alla fine del libro che stiamo presentando oggi. La figura di Cristo in questa bozza di sceneggiatura rappresenta, in realtà, un punto di sintesi della produzione del cinema di Martin. Rimango colpito perché è come se Martin fosse inseguito dalla figura di Cristo sin da quando aveva vent’anni. Adesso, dopo oltre sessant’anni, continua ad avere questa figura di Gesù sempre davanti agli occhi. La figura di Cristo ha profonde radici artistiche in Scorsese: in particolare la figura che lui predilige è il volto di Cristo dipinto da El Greco, che poi era quello preferito da Pasolini. In Silence l’immagine di Cristo che Rodriguez calpesta proprio quella di El Greco. Ed è interessante che lui contrapponga – giustamente – El Greco a Piero della Francesca. Poi, Martin è un grande lettore, conosce benissimo Dostoevskij e tanti altri grandi scrittori: si è confrontato su Dio e sulla figura di Cristo alla luce di grandi scrittori. Ha letto James Joyce ma in lui ha trovato un Dio che punisce e non l’ha sentito in sintonia con sé. Poi è passato a Bernanos, ma alla fine, per quanto Bernanos mostri un Dio misericordioso, questo Dio resta sempre per lui troppo duro, aspro. Ha trovato la figura di Cristo più simile alla sua nell’opera dello scrittore cattolico giapponese Shûsaku Endô. La sua narrazione di Cristo non è rilevante per i miracoli: il vero grande miracolo per lui è la tenerezza, la compassione. Quindi Martin mi sembra un grande regista inseguito dalla tenerezza e dalla compassione di Cristo.

Un’ultima domanda, maestro. Siamo tutti siciliani qui, incluso lei. Avverte un legame sentimentale con questa terra? Anche se non è nato qui le sue radici sono qui.

Non c’è dubbio. Non passa momento che non pensi alla Sicilia e alla mia famiglia siciliana. Il mio sogno è vivere abbastanza a lungo per poter visitare tutta la Sicilia. Ci sono stato un paio di volte, ma è stato molti anni fa, all’inizio degli anni ’90, quindi mi piacerebbe molto tornare, e lo sto pianificando. Ci sono sempre stati ostacoli sulla strada, ma non vedo l’ora di tornare presto in Sicilia, di trascorrervi del tempo. Mi affascina il fatto di essere parte di questo territorio. Anche la mia società di produzione si chiama Sikelia, che è l’antica parola per Sicilia. La Sicilia fa così tanto parte della mia vita, di chi sono e della mia identità che, in un certo senso, ho raggiunto un punto nella mia vita in cui devo abbracciarla ancora di più.