Ortega, il vescovo e un Paese in cella. Il comandante nel labirinto
Da cinque giorni, il vescovo Rolando Álvarez è recluso nel carcere di La Modelo, alla periferia di Managua, dove sconta una condanna a ventisei anni e quattro mesi per «tradimento della patria». La sua detenzione, però, era cominciata quasi sei mesi fa: dal 19 agosto, infatti, era tenuto agli arresti domiciliari in attesa del processo dall’esito scontato. Il regime guidato da Daniel Ortega – e dalla moglie e vice Rosario Murillo – lo aveva giudicato da anni colpevole di «superbia».
Lo ha detto lo stesso presidente alla vigilia della sentenza. “Superbo” è un termine preciso nel vocabolario orteguista: indica chiunque osi sfidare il suo potere, sia esso un ex compagno d’armi, come l’ex comandante “Dos” Dora Téllez, rinchiusa per 605 giorni nel penitenziario de El Chipote e poi spedita in esilio, o una voce da sempre critica, come monsignor Álvarez. Dopo la maxi-scarcerazione ed espulsione di 222 dissidenti, ancora decine di oppositori, reali o presunti, affollano le celle del Nicaragua.
Il vero prigioniero, però, è Ortega. L’ex comandante è solo nel labirinto, ostaggio di un passato rivoluzionario stravolta a propria misura e della consorte, vero “uomo forte” del regime. Ci vive dall’aprile 2018 quando una feroce repressione annegò nel sangue la protesta nonviolenta di migliaia e migliaia di cittadini di ogni colore e schieramento politici uniti nel denunciare la perdita di legittimità del governo che aveva occupato ogni spazio civile, politico ed economico. La “bella” copia della dittatura del clan Somoza, abbattuta con il contributo anche del comandante Ortega.
La “Rivolta d’aprile” inflisse un duro colpo alla «coppia presidenziale». Eppure, ancora qualche veterano dei tempi andati, ignaro del sistema insieme populista, liberticida e neoliberista costituto a Managua, era pronto ad alzare la voce in difesa del « vecchio Daniel», espulso perfino dall’Internazionale socialista. Ora la carcerazione di monsignor Álvarez ha squarciato il velo di pretesti e giustificazioni. Più del vescovo, quella sentenza paradossale, anticipata in diretta televisiva, ha condannato Ortega ad essere espulso dalla realtà attuale dell’America
Latina. Proprio nel momento in cui il Continente è governato da leader progressisti, l’ex guerrigliero sandinista appare tragicamente isolato. Mentre perfino gli “amici” al potere a Cuba e in Venezuela cercano di aprirsi spiragli se non per convinzione almeno per pragmatismo, il caudillo di Managua chiude sé stesso e il proprio Paese nella cantina della storia.
Un triste epilogo per il movimento ispirato dalla lotta di Augusto Sandino, il «generale degli uomini liberi», protagonista della battaglia contro gli occupanti statunitensi, e culminato nella Rivoluzione del 1979, portata avanti da giovani infarciti di ideali nazionalisti, libertari e antimperialisti di tono socialisteggiante. Nelle mani di Ortega, quell’eredità capace di ispirare i versi del sacerdote-poeta Ernesto Cardenal o la penna di Julio Cortázar, è diventata retorica vuota e pacchiana. Proprio come il gigantesco albero di metallo giallo sgargiante, ideato da Rosario Murillo, che copre la sagoma di Sandino sulla collina di Tiscapa. A Managua il presente è caricatura del passato. Del resto, come diceva Karl Marx, la storia si ripete due volte, la prima in tragedia, la seconda in farsa.
Come altro definire il processo che il vescovo Álvarez ha deciso di accettare, rifiutando di salire sull’aereo che ha portato i 222 rilasciati negli Usa? Il suo gesto ha costretto il mondo a togliere le lenti dell’ideologia e a guardare il Nicaragua di Ortega per quello che è. Ancora una volta nel Paese « violentemente dolce» risuonano le parole del poeta-simbolo Rubén Darío: «Tremate, tremate tiranni nelle vostre reali sedie. Né pietra su pietra di tutte le Bastiglie domani resterà».