Analisi. No, gli Stati Uniti non sono così divisi come sembra
Dopo aver definito per mesi i democratici “malvagi”, “pazzi” e “malati”, le loro elettrici “gattare infelici senza figli” e i loro leader “il nemico interno, più pericoloso della Cina e della Russia”, Donald Trump e il suo vice J.D. Vance, dall’alto del potere appena conquistato, hanno invitato gli americani a lasciarsi alle spalle le divisioni e a “unirsi”.
Dalla parte degli sconfitti, Kamala Harris ha riservato tutto all’unità, se non il suo discorso di concessione, almeno un comizio di pochi giorni fa, nel quale ha chiamato i repubblicani “vicini di casa, non nemici”. Eppure anche la democratica fino a quel punto aveva delineato la sua campagna in termini di lotta esistenziale fra il bene (la sua compagine) e il male (gli avversari), dove vincere significava assicurare la sopravvivenza del Paese. E, se non lei direttamente, di certo molti democratici di peso hanno liquidato spesso gli elettori di Trump come razzisti, sessisti, omofobi o semplicemente stupidi e ignoranti.
È possibile che l’America trovi dei punti in comune, dopo tanta divisione? La risposta dipende da chi la offre. I leader dei due partiti e buona parte dei media hanno dipinto un Paese lacerato. Uomini contro donne, laureati contro operai, persone di fede contro atei e agnostici. Gli americani invece da mesi parlano delle loro famiglie, della loro comunità, dei loro problemi, dei loro valori e si guardano attorno in cerca del candidato che dia loro qualche probabilità di trovare delle soluzioni, o un cambiamento, se non sono soddisfatti della loro situazione.
Un elemento che colpisce ascoltando gli americani per strada, nelle chiese, nelle assemblee comunali e nelle riunioni delle associazioni di quartiere, a New York come a Phoenix o a Chicago, è quanti non si sentano pienamente rappresentati da nessuno dei due principali partiti politici.
Volendo cercare un’etichetta, possiamo chiamare questa fetta di popolazione i “disadattati della politica”, e sono tanti. Per lo più sono persone che si identificano come moderate o indipendenti – non bisogna dimenticare, anzi occorre sottolinearlo due volte in rosso, che gli indipendenti formano quasi il 50% della popolazione americana. O persone che passano da un partito all’altro a seconda delle elezioni e del candidato. Mai come quest’anno si sono sentiti, nelle interviste, americani che dicono di aver sempre votato democratico ma di aver scelto Trump per via della sua promessa di sollevare l’economia per tutti, o repubblicani che hanno messo la crocetta vicino al nome di Harris perché nauseati dal comportamento volgare del tycoon.
Ci sono centinaia di migliaia di americani economicamente progressisti ma conservatori sulle questioni morali, o viceversa. Altrettanti apprezzano la posizione della destra sull’obiezione di coscienza ma ne rigettano l’intolleranza verso gli immigrati. Si identificano con le battaglie contro la discriminazione razziale della sinistra ma rigettano la sua posizione estrema sull’aborto.
Queste pressioni incrociate sono il collante dell’America, che può far superare una polarizzazione politica sempre più percepita come un processo non intrinseco al Paese, ma che scende dall’alto verso il basso.
Che i due partiti possano ritrovare uno spirito d’unità e lavorare insieme a Washington è dunque altamente improbabile, ed è legittimo dubitare che Trump, se in effetti intascherà la Camera dopo aver preso la Casa Bianca e il Senato, sarà interessato a governare con la mano tesa verso i democratici.
La sfida reale per i partiti, però, è intercettare chi ha votato per uno o per l’altro dei candidati “turandosi il naso”. Si sente dire molto in queste ore che i democratici hanno perso il voto degli operai, o dei latinos, o degli uomini. In realtà Kamala Harris ha perso il voto di chi non sceglie un candidato per ideologia o per principio ma perché sente il bisogno, umanissimo e legittimo, di sentirsi ascoltato, e non come membro di un “gruppo demografico”. Trump l’ha capito, almeno in apparenza, ma è tutto da vedere se le sue politiche manterranno questo approccio.
A riassumere abilmente questa sfida è stato, ieri, il senatore Bernie Sanders, che ha criticato sia Trump che Harris: «Capiranno il dolore e l’alienazione politica che stanno sperimentando decine di milioni di americani?» Poi ha concluso, amaramente: «Probabilmente no».