Berlusconi. Il cavaliere ha lasciato il campo e anche i rivali si sentono orfani
La fine del potere confina nel passato i vincitori e gli sconfitti La morte di Silvio Berlusconi lascia dietro di sé molti orfani. Qui non si parla tanto dei figli, cui vanno le più sentite condoglianze, o degli eredi politici (se ne esistono) ma di chi attorno alla sua figura ha costruito una carriera “contro”. Perché sarebbe ipocrita nasconderlo: per molti “il Cavaliere” come amava farsi chiamare non è stato solo un avversario o, peggio, un nemico, ma una vera e proprio ossessione. L’Italia per buoni vent’anni, sicuramente dal 1994 alla fine del governo Monti, è stata, pur tra diverse sfumature, letteralmente divisa in due. Da una parte i veneranti l’imprenditore, il leader partitico, il presidente del Milan, dall’altra chi lo identificava come il male assoluto, incapace di avere anche solo, se non progetti, almeno idee di bene gratuito, libere da interessi personali.
E pompando su quella convinzione, immarcescibile, sono stati costruiti simboli, figure quasi di culto, personaggi di riferimento. In nome dell’antiberlusconismo è cresciuta la fede “laica” nell’infallibilità della magistratura, almeno di quella che lo metteva sotto processo, centinaia di migliaia di persone sono scese in piazza, giornali e tv hanno lanciato campagne moralizzatrici. A guidarle talk show, firme passate in breve dalla cronaca giudiziaria agli editoriali al veleno, intellettuali urlanti allo stesso modo di chi, dalla parte opposta della barricata, televisiva in primis, tesseva le lodi del sovrano mediatico.
Probabilmente nessuno nella storia europea recente ha diviso di più le coscienze, forse solo Margaret Thatcher tra la fine degli anni 70 e il 1990 ma con una differenza sostanziale. La premier britannica perseguiva un modello sociale conservatore, nel nome del quale si impegnò a smantellare il socialismo sindacale e a rovesciare classi dirigenti logore, Berlusconi invece ha lavorato soprattutto sul vocabolario chiamando rivoluzione liberale ciò che non lo era affatto, soprattutto sapendo dare voce e visibilità all’anima più profonda e popolare d’Italia. “Sapeva ascoltare la pancia del Paese” è una della tante immagini utilizzate per definire il suo stile comunicativo, che poi diventava cemento per rafforzare una presenza che, spesso, più che all’impresa somigliava al regno monarchico.
Quasi inevitabile che il contraltare puntasse alla testa, alla ragione riuscendo però in poche occasioni a scaldare i cuori. Il limite dell’antiberlusconismo sta proprio lì, nel non aver saputo trasformare l’avversione in pensiero politico compiuto, bloccando sul nascere chi sembrava averne le capacità, in nome di una presunta complessità che spesso mascherava piccole-grandi ambizioni personali. L’esito, almeno ad oggi è il continuo frastagliarsi di sigle, movimenti, partiti. Il discorso cambia, ma non troppo, se dall’agone politico ci spostiamo nel campo dell’editorialistica e, ancora di più, nella satira politicizzata. “Ragazzi, come ci siamo divertiti” verrebbe voglia di dire se non fosse che quasi sempre le battute ironiche lasciavano sulla bocca sorrisi amari, preoccupati. Così, in queste ore, tra gli orfani ci sono anche attori comici ed ex professionisti della risata militante, se nel frattempo non hanno cambiato direzione di marcia, come qualche corsivista approdato alla difesa di battaglie perse in partenza o delle ragioni della pace, prese però dalla parte dell’aggressore.
Il potere, infatti, ha questo di strano, quando si spegne porta con sé anche chi l’ha contrastato in prima persona, di petto, archiviando nello stesso armadio vincitori e sconfitti dalla storia. Finisce l’uomo, l’idea, l’industria Berlusconi ma a piangerlo non sono soltanto i figli o chi vorrebbe sinceramente raccoglierne l’eredità politica. Qualche lacrima calda scende anche dagli occhi di quanti hanno bocciato ogni sua mossa, giorno dopo giorno. È un po’ come in quel film di eterni duellanti: alla fine, quasi senza accorgersene si diventa parte della stessa famiglia. E, subito dopo, figure retoriche di un racconto un tempo “nuovo” ma ormai, inevitabilmente, con i verbi tutti declinati al passato.