Il direttore risponde. Il "Caso Riace" tra coscienza, amarezza e una tenace speranza
Gentile direttore,
nello spartito della cronaca giudiziaria che riporta gli illeciti degli amministratori pubblici, quella su Mimmo Lucano spicca come nota dissonante. Dissonante per il motivo che la violazione della legge che gli è imputata trae motivo dalla solidarietà verso chi non ha voce, non dal vantaggio personale. Non si sottace la probabile infrazione delle leggi in materia di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e di appalti per la raccolta dei rifiuti, norme penali cui sono connesse sanzioni: cito le parole di Antonio Maria Mira, nel suo appassionato eppure equilibrato editoriale su 'Avvenire' del ottobre scorso: «Se ha sbagliato, se le accuse reggeranno e se ha davvero commesso reati, è giusto che paghi». Era pertanto doveroso per il Giudice per le indagini preliminari formalizzare il rinvio a giudizio di Lucano (anche se appare meno comprensibile il provvedimento degli arresti domiciliari: ma si sa, il nostro è il Paese che eccelle nel contesto internazionale quanto a misure cautelari restrittive della libertà personale... ). I giudici sono infatti sottoposti alla legge, che a loro piaccia o meno. Ben altra è la prospettiva dalla parte del cittadino, conformemente all’insegnamento dei padri del diritto: quando il diritto positivo (la legge scritta dal legislatore) confligge con la legge naturale (quella scritta nella natura dell’uomo dove è impressa l’impronta del divino), la seconda va osservata a discapito della prima, costi quel che costi. È la scelta che Lucano ha dichiarato di aver fatto per non rinnegare la sua Essenza.
Guido Amato Brescia
Sto ai fatti e aspetto di vedere le conclusioni dell’indagine giudiziaria in corso a carico del sindaco di Riace Mimmo Lucano, primo cittadino amato della sua comunità che, come hanno testimoniato gli stessi magistrati inquirenti, non s’è messo in tasca un centesimo delle risorse pubbliche. Un dato di fatto che dedico ai signori dallo slogan facile e dall’impudenza vergognosa che hanno subito straparlato di «business dell’accoglienza». Il mio collega Mira – sono contento che lei lo ricordi – ha già commentato compiutamente la vicenda («Guai a chi confonde»). Cosicché posso limitarmi a fare appena un paio di altre sottolineature. La prima di esse è piena di amarezza: ammetto di essere colpito dalla massiccia e pressante attività di controllo sull’azione amministrativa di un sindaco che ha ridato vita e lavoro a un paese della Calabria semi-abbandonato, unito nel segno dell’inclusione di vecchi e nuovi cittadini, nativi e immigrati, e contemporaneamente, ha tenuto lontano (o, se volete, “escluso”) solo e soltanto la ’ndrangheta. La seconda sottolineatura è piena di speranza: fare bene il bene – secondo il saggio monito che unisce tanti santi cristiani e un’illuminista come Diderot – è fondamentale. Mi auguro che il buon sindaco di Riace sia riconosciuto innocente, e non solo “in forza di coscienza”, e che tenga cara e rilanci questa lezione.