Il lungo elogio non è passato inosservato, vista la situazione in cui si trova oggi l’Iran. Questo mese, in occasione del compleanno del secondo imam sciita Hassan, sul sito web della Guida suprema è stato ripubblicato uno scritto di Khamenei in cui si celebrava la saggezza di questo imam che scelse la pace con i rivali sunniti invece dello scontro per il bene supremo della comunità sciita. Di solito, il regime celebra il terzo imam Hussein, il fratello di Hassan, il condottiero che affrontò il martirio a Kerbala nell’anno 680. L’esempio ideale per una Repubblica da sempre radicalmente antagonista come quella iraniana.Ma oggi, stretta fra sanzioni economiche draconiane e la minaccia sempre più reale di un preventivo attacco militare israeliano, si fanno più numerose le voci che chiedono se continuare il programma di arricchimento dell’uranio abbia un senso, visti i prezzi catastrofici che l’Iran sta pagando. Ricordare allora chi, come Hassan, scelse il compromesso per garantire la sopravvivenza della propria comunità può essere un segnale all’interno per preparare il Paese al cedimento del regime alle richieste internazionali. Un passo tuttavia difficile per Khamenei che ha impedito negli scorsi anni il raggiungimento di un compromesso sul nucleare, persino quando l’Iran avrebbe potuto ottenere grandi benefici. Il rischio è che piegarsi ora rappresenti per lui una disfatta personale che ne minerebbe il potere. Le possibilità di scelta per Teheran, d’altronde, si stanno assottigliando: non vi è dubbio che le sanzioni economiche e l’embargo all’acquisto del petrolio iraniano stiano colpendo la sua fragile economia. Il rial è svalutato, le riserve valutarie sono in diminuzione, l’inflazione e la disoccupazione galoppano. È stato stimato che ogni giorno l’Iran perda circa 130 milioni di dollari per le minori vendite di petrolio. Per di più il Paese è politicamente isolato e rischia di veder sparire, con la rivolta in Siria, l’unico suo vero alleato regionale.Sullo sfondo, le minacce sempre più credibili di un attacco israeliano. Minacce rilanciate con forza questo mese, in un apparente paradosso, dato che tutti in Occidente sottolineano il successo delle sanzioni. Per qualcuno, sarebbe più un gioco delle parti, in cui l’ombra dei missili con la stella di Davide serve a piegare definitivamente un Iran già messo alle corde economicamente. Per altri, la decisione di attaccare veramente è stata di fatto presa dal governo di Bibi Netanyahu, nonostante le perplessità dei vertici militari israeliani e l’opposizione dell’amministrazione Obama. Impossibile fare previsioni, anche se è noto quanto il primo ministro israeliano sia ossessionato dall’Iran visceralmente anti–israeliano, un nemico che – ripete – va fermato a ogni costo. Anche la Casa Bianca, all’inizio di quest’anno elettorale, ha ripreso in considerazione un attacco militare. Ma il rischio di un insuccesso o di un’esplosione incontrollata del conflitto hanno consigliato prudenza: già un presidente democratico, Carter, venne sconfitto per colpa della repubblica islamica. Meglio non correre ancora questo rischio, si sono detti. Anche se in Israele sanno che un loro attacco nelle fasi finali della campagna elettorale forzerebbe Obama ad appoggiarlo.C’è infine anche chi sottolinea come Israele abbia già ottenuto dei risultati con le proprie minacce a Teheran: se da un lato si chiede a Gerusalemme di non attaccare, dall’altro si è messa la sordina alle critiche sugli insediamenti ebraici nei territori occupati e sulla durezza israeliana verso i palestinesi. In ogni caso, Israele ne ricava un guadagno. Ma per i falchi che sostengono – a Gerusalemme quanto a Washington – la necessità di colpire militarmente, e colpire duro, Teheran, questi calcoli politici sono irrilevanti: con l’Iran non si possono stringere accordi. È quanto pensano anche i duri del regime sciita: inutile cedere al compromesso, perché i nemici della repubblica islamica vogliono solo la sua distruzione. L’esempio offerto da Hassan, per essi, è nient’altro che una pericolosa illusione da pavidi.