A proposito di giusto processo penale. Il calvario di Carolina
Sono passati giorni, anzi settimane. Ma non è successo niente. E il silenzio si fa pesante.
Eppure più di qualcuno dovrebbe chiedere scusa a Carolina Girasole, sindaca coraggiosa di Isola di Capo Rizzuto. A fine aprile la Cassazione ha messo la parola 'fine' al suo assurdo e troppo lungo calvario. Dopo Tribunale e Appello, anche i giudici della Suprema Corte hanno sentenziato che le accuse di essere collusa con la ’ndrangheta oltre che incredibili erano anche ingiuste, senza prove, anzi con prove distorte se non addirittura basate su veri e propri falsi. Inammissibile, dunque, il ricorso della Dda di Catanzaro contro la doppia assoluzione di Girasole e del marito Franco Pugliese.
Vennero arrestati il 3 dicembre 2013 e posti agli arresti domiciliari per 168 giorni. Il 22 settembre 2015 arrivò la prima assoluzione con formula piena, in quanto l’accusa si era rivelata «del tutto infondata». Ricorso dell’accusa e seconda assoluzione piena, in appello, il 27 maggio 2019. Il «contenuto» delle intercettazioni «è equivoco» scrivevano i giudici di primo grado aggiungendo che sarebbe stata «necessaria un’operazione di rigorosa 'controverifica'» in dibattimento ma in questa sede «neppure le prove dichiarative» sono state «tali da poter suffragare l’assunto accusatorio».
E i giudici d’appello confermarono: «Da tali intercettazioni non può desumersi la fondatezza dell’ipotesi accusatoria di corruzione elettorale». Insomma, «quello che manca è proprio la prova dell’accordo collusivo». E già nelle aule di giustizia si cominciò a denunciare che Carolina Girasole fosse stata lasciata sola nel suo impegno contro la ’ndrangheta. Eppure l’amarissimo calice di queste accuse è continuato a circolare sino a alla primavera 2021, dilatando i tempi per giungere alla verità giudiziaria. Eppure sarebbe prova di maturità e di senso della giustizia riconoscere gli errori fatti. Non riconoscerli, invece, non è solo inutile, può diventare disumano. La sindaca anti-’ndrangheta, dopo il primo terribile colpo, ha invece scelto la dignità di chi non ha 'peccati' mafiosi sulla coscienza, e che sceglie di difendersi non dal processo ma nel processo. Lo ha fatto senza urlare, ribattendo punto su punto alle accuse, smontando tesi precostituite, mettendo sul banco dei tribunali la sua vita, le sue azioni concrete contro la malavita, i documenti, i risultati. Apparentemente forte, ma tanto fragile. L’ho incontrata più volte in questi anni di lotta.
L’ho vista soffrire, piangere, domandarsi all’infinito 'perché?'. Ma anche rivendicare con forza il suo impegno per il riscatto e la rinascita di Isola di Capo Rizzuto.L'ultima volta, a settembre dello scorso anno, mi aveva accompagnato a incontrare i giovani della cooperativa 'Terre joniche', da lei fortemente voluta, che coltiva terreni confiscati al clan Arena. E ancora il 'giardino delle farfalle' realizzato anch’esso su un terreno della cosca. Ma anche la villa strappata ai boss e ristrutturata per farne una scuola e poi rimasta inutilizzata. Lo scrissi e la politica locale insorse. Contro di lei. Una conferma degli ostacoli e delle incomprensioni che la battaglia di legalità e di futuro di Carolina continua a incontrare. Ma lei ha proseguito a lottare per la sua terra, per i suoi concittadini, e anche per quei cittadini giunti da altri Paesi e continenti che qui vengono sfruttati. Quando era sindaca, si oppose fortemente agli affari della cosca sul Cara di Sant’Anna. E ricevette dai gestori e dagli 'amici' durissimi attacchi. Sono stati costoro a finire, poi, nel mirino della magistratura. Mentre Carolina, definitivamente assolta, continuava a denunciare e a preoccuparsi, da semplice cittadina, della sua gente e dei fratelli e sorelle immigrati.
Davvero in tanti dovrebbero chiedere scusa a questa piccola e forte donna di Calabria. E non solo chi ha infierito con un’inchiesta sbagliata. Dovrebbe chiedere scusa anche chi nel mondo della politica, del giornalismo e perfino dell’antimafia, dopo averla osannata l’ha presto dimenticata se non addirittura accusata. E a ogni assoluzione ha fatto finta di nulla. Ma lei è andata avanti, decisa, ferita, ma senza strepiti, raccogliendo documenti e testimonianze per riaffermare la pura e semplice verità: è lei Carolina, e non 'quell’altra' disegnata in un incubo giudiziario. E verità esistenziale e giudiziaria ora coincidono. Nove anni dopo. Un promemoria utile anche a chi, giustamente convocato dalla ministra Marta Cartabia, sta tornando a ragionare (o sragionare) a proposito di riforma del processo penale.