Opinioni

editoriale. Il Calvario delle Filippine con le chiese senza più tetto

Giorgio Bernardelli sabato 19 aprile 2014
Entri nella cattedrale e ti si spalanca il cielo. Non è un’immagine: alzi lo sguardo e sopra di te non trovi proprio nulla. La statua del Cristo caricato della Croce che ti ritrovi accanto è senza tetto proprio come la stragrande maggioranza della gente qui a Leyte. Il venerdì e il sabato santi delle vittime del tifone Haiyan in fondo sono già tutti dentro questa istantanea della chiesa della Trasfigurazione a Palo, la sede dell’arcidiocesi nell’isola filippina colpita l’8 novembre scorso dal più violento tifone che si ricordi da queste parti a memoria d’uomo. I vetri alle finestre portano ancora chiari i segni della distruzione portata dalle raffiche di vento a oltre 300 chilometri l’ora; e nel cortile ci sono le croci delle tombe delle vittime ritrovate qui intorno.  Ma anche a Palo la morte non è l’ultima parola, perché intorno a questa cattedrale ferita c’è una comunità che prova a rialzarsi anche tornando a vivere i riti di Pasqua. Come accade da quarant’anni anche in questo Venerdì Santo a Palo è stata rappresentata la Passione di Gesù. Più di 800 i penitenti che hanno partecipato alla Sacra rappresentazione; e questa volta ciascuno aveva la propria storia da portare dentro di sé: quella di un fratello, di un figlio, di un amico strappato via da questa tragedia. Il bilancio ufficiale è fermo a quota 6.268 vittime, ma sulle porte delle chiese campeggiano tuttora le fotografie dei dispersi. In tutto si parla di 1,1 milioni di case danneggiate, metà delle quali completamente distrutte. I numeri, però, non bastano a rendere l’idea dell’immensità della catastrofe; la intuisci solo quando fai girare lo sguardo a 360 gradi e non trovi un solo edificio rimasto intatto. O quando senti la storia di quanti si erano rifugiati nel resort dei turisti stranieri, pensando che fosse il luogo più solido e quindi più sicuro. E invece non lo era. Sono i giorni della Passione e anche a Palo si sono riascoltate le sette parole di Cristo sulla croce. Poi – dopo le tre del pomeriggio – è cominciato il rito filippino della Visita Iglesia, le visite ai 'sepolcri'. «L’80 per cento delle chiese qui è stato danneggiato – racconta padre Alvin Badana, responsabile per l’arcidiocesi di Palo della Nassa, la Caritas filippina –. Ovviamente la priorità nell’assistenza è stata data ai bisogni delle famiglie. E siamo molto grati per la vicinanza che fin dal primo giorno le Chiese di tutto il mondo ci hanno manifestato. Ma qui per la gente non si ricostruisce una comunità senza la chiesa. Così molte famiglie senza tetto – quando dalle organizzazioni umanitarie hanno cominciato ricevere i teli di plastica sotto cui ripararsi – li hanno portati alla cappella del villaggio. Prima ancora che a casa loro volevano essere sicuri che lì ci fosse un riparo di fortuna».  C’è questa fede semplice dentro la sacra rappresentazione della Passione a Palo. La fede di una comunità che – secondo un’immagine forte utilizzata dall’arcivescovo John Du nei giorni subito dopo la catastrofe – «è stata visitata dall’angelo della morte». Ma che in questo Calvario durissimo ha imparato ancora di più che la vita è nelle mani di Dio. Non sono finite le sofferenze: a quasi sei mesi dal tifone, Leyte sta vivendo la fase del passaggio dall’emergenza alla ricostruzione. Caritas Internationalis ha diffuso in questi giorni il bilancio del suo impegno: 125mila sono state le persone assistite con aiuti alimentari d’emergenza, 100mila quelle che hanno ricevuto un tetto di emergenza attraverso una tenda o un telo per chiudere alla meglio il soffitto. Ma l’obiettivo di adesso è aiutare questa gente a rialzarsi riavviando attività come la pesca o l’agricoltura.  Perché intorno non mancano le lentezze e pure le distorsioni nell’uso della grande mole di aiuti arrivata attraverso la comunità internazionale. Così tra le vittime è nato il People Surge, l’'onda della gente', un movimento che si batte perché la ricostruzione avvenga coinvolgendo davvero la popolazione e non passando attraverso i soliti potentati locali, dove a farla da padrona è la corruzione. In prima linea c’è una suora benedettina, Edita Eslopor: qualche giorno fa a Manila li ha ricevuti anche il cardinale Luis Antonio Tagle. «In questa Settimana Santa invochiamo la benedizione della Chiesa sui sopravvissuti che soffrono come Cristo – ha detto suor Edita –, ma anche il suo richiamo morale alle autorità affinché si ricordino dei poveri vittime di questa tragedia».   La risurrezione non è facile: l’economia di Leyte si basava sostanzialmente sulle noci di cocco, con gli stabilimenti che ne producono l’olio. Ma il tifone ha abbattuto tutto e ci vorranno almeno cinque anni per un nuovo raccolto. E questo è il volto della devastazione che si fa sentire anche nelle aree più interne di Leyte; quelle dove le macerie si vedono di meno, ma non per questo l’emergenza è meno grave. Ci addentriamo fino alla parrocchia di St. Ana, nella municipalità di La Paz, a 50 chilometri di distanza: anche in questo piccolo villaggio la chiesa ha subito danni molto pesanti. Ma qui da raccontare c’è anche la storia di un’altra morte che non è stata l’ultima parola: a St. Ana – infatti – a gestire gli aiuti raccolti in Italia dal Pontificio Istituto Missioni Estere sono gli amici di padre Fausto Tentorio, il missionario del Pime ucciso a Mindanao nell’ottobre 2011. Con lui avevano imparato a stare accanto agli ultimi e nel suo nome si sono mobilitati anche in questa tragedia, attraverso la Fr. Pops Foundation, la fondazione cui hanno dato vita per continuare il suo lavoro.  Ua mobilitazione che passa attraverso la messa in opera di orti comunitari, attraverso i quali sta ricominciando a germogliare la speranza anche a St. Ana. «È la nostra resurrezione – commenta il parroco, padre Melvin Insigne –. Il segno che Gesù cammina con noi dopo il nostro Calvario. E che rimane nei rapporti di fraternità e giustizia che questa prova ci spinge a coltivare». Una Pasqua in cui c’è posto anche per un grande sogno: in gennaio a Leyte è venuto in visita il cardinale Robert Sarah, presidente del Pontificio Consiglio Cor Unum, che ha portato la solidarietà di Papa Francesco. In quell’occasione ha detto: «Anche il Papa vorrebbe venire qui». Poche parole che sono però bastate a mettere in fibrillazione la gente. Nelle Filippine Francesco lo attendono nel 2016, per il Congresso eucaristico internazionale di Cebu. Ma c’è chi si spinge addirittura più in là con la fantasia: «In fondo dalla Corea (dove il Papa andrà in agosto, ndr) non siamo così lontani, basterebbe che sorvolasse queste zone per darci coraggio...», azzarda padre Melvin.Probabilmente non sarà così facile; ma già solo pensarlo tra le vittime di Haiyan ha riacceso la speranza.