È una sfida di sguardi, di pelle. Soprattutto, di cuore. È un cammino che inizia con l’alba dell’uomo e si inerpica sulle vette più alte, si immerge nelle oscurità più profonde di ciascuno di noi. La meta si chiama pace, il mezzo, lo stile per raggiungerla è sentirsi o, meglio, capire di essere figli dello stesso Padre. Nel Messaggio per la Giornata mondiale del 1° gennaio 2014, Papa Francesco lo scrive con chiarezza: senza fraternità diventa impossibile costruire una società giusta. E solo «quel farsi prossimo che si prende cura dell’altro» rende realizzabile una «pace solida e duratura».Un impegno non da poco, anzi un vero e proprio invito rivoluzionario. Si tratta di imparare a ragionare al plurale, partendo dalle piccole cose, dai rapporti domestici, dai problemi di famiglia. Significa combattere la «globalizzazione dell’indifferenza» che ci fa tirare dritto di fronte alla sofferenza altrui, con l’apertura, con la vicinanza e con quella condivisione, che si radica nel riferimento a un Padre comune, trascendente. Perché ci sono ancora troppe realtà in cui i diritti umani, dalla difesa della vita alla libertà religiosa, vengono sistematicamente violati.E forse mai come oggi (concetto ribadito nel discorso di ieri agli ambasciatori di 17 Paesi) singoli e gruppi di potere si sono arricchiti sulla tratta dei loro simili. E poi i tanti conflitti che archiviamo come il più banale dei videogiochi. O le nuove guerre, magari meno visibili ma altrettanto cruente, che si combattono in campo economico e finanziario, lasciando sul terreno persone, famiglie, imprese. E, ancora, il dilagare patologico delle dipendenze, la corruzione e il crimine organizzato, lo sfruttamento del lavoro, le offese al creato, il dramma dei migranti, i terribili abusi contro i minori, la schiavitù che ancora dilaga in vaste aree del mondo.Emergenze, ma forse è più giusto chiamarle piaghe quotidiane, che si vincono creando equilibrio tra libertà e giustizia, tra responsabilità personale e solidarietà, tra bene dei singoli e comune. Perché, aggiunge Francesco citando
Populorum progressio e
Sollecitudo rei socialis, «non soltanto le persone, ma anche le nazioni debbono incontrarsi in uno spirito di fraternità» e la pace «è indivisibile. O è bene di tutti o non lo è di nessuno». Di qui, ad esempio nel campo del lavoro e della distribuzione del reddito, il richiamo a un impegno condiviso. Nello stile della solidarietà cristiana e di quella «ipoteca sociale» in base a cui, come spiega san Tommaso d’Aquino, chi ha dei beni li «possiede non solo come propri, ma anche come comuni, nel senso che possono giovare non unicamente a lui ma anche agli altri».A ben vedere si tratta di andare alla radice della politica, intesa come alta forma di carità. Vuol dire non ridurre gli interventi economici a un arido tecnicismo che ignora la dimensione trascendente dell’uomo. Soprattutto, significa tornare all’essenza del nostro essere fratelli. Uomini e donne figli dello stesso Padre. Per il quale siamo tutti ugualmente amati. Unici. E irripetibili.