Il bene in pagina, domande che sono risposta. Il coraggio che i cronisti devono avere
Caro direttore,
vorrei condividere una piccola riflessione con lei e i colleghi di "Avvenire": come fare a non farsi abbattere dal desiderio di narrare buone novelle? Io che desidero, a mio modo, evangelizzare, come umile penna nei giornali e donna nel mondo, faccio fatica. Brontolo come tutti per le cose che non vanno, eppure la voglia di dare good news resta lo stesso. Ma il mondo è ancor più grigio, disabituato al bene. E finisce per calpestare anche i fiori (la Parola) che trovano il coraggio di nascere, crescere, venire al mondo, attorno agli alberi (gli uomini), dando essi stessi nutrimento alle api (alle persone). Sarà, come dice papa Francesco, che dovremmo avere tutti una natura più integralmente ecologica? Ciò porterebbe ad avere, forse, più cuore gli uni con gli altri?
Patrizia Carollo
Le sue domande sono già una risposta, cara collega. Io semplicemente so, e cerco di non dimenticare mai, felice pure per questo di lavorare in un giornale come “Avvenire”, che a noi giornalisti tocca un compito non piccolo e che nessuno può assolvere al posto nostro: avere il coraggio di dire e dare, con rilievo, anche tutto il bene che c’è, che accade, che poco a poco viene fatto. Avere il coraggio di riconoscere e, per il solo fatto di riconoscergli cittadinanza mediatica, di proporre a modello «il buono, il vero e il bello» – cito Francesco, che il 16 marzo 2013, da Papa appena eletto incontrava per la prima volta i giornalisti. Questo coraggio è il coraggio – che qualcuno pare inusitato – di saper anche, e letteralmente, bene-dire nelle nostre cronache che troppo spesso sono invece maledette da una dilagante cronaca nera e dal più vacuo chiacchiericcio su fatti e misfatti dei soliti noti: politici, vip e lazzaroni. Ci diciamo, nell’ambiente, che è questo che mediaticamente funziona, mentre il lato luminoso e motivante e resistente della cronaca non funzionerebbe, perché il bene non interessa e non fa notizia… Dargli spazio si risolverebbe in una predica tutto sommato inutile. È un alibi fragile, e davvero mal confezionato. Eppure è con questo salvagente, che non salva nessuno, che nelle redazioni ci si abbandona alla corrente delle cattive notizie e ci si lascia trasportare (ma qualcuno, lo vediamo, ci sguazza proprio in questo vorticoso “grand guignol” macabro e pieno di sporco). Sembra libertà, ma più accumulo esperienza e più penso che probabilmente è un modo per evitare di darsi il coraggio di cui sopra, anzi che in definitiva è proprio un modo per scappare, che però non porta in paradiso (neppure quello, assai minore, dei cronisti di successo) e, alla lunga, per tanti motivi, non fa neanche dormire bene. Forse anche per questo, oltre che per sincera passione di colleghe e colleghi come lei ovunque impegnati, vedo che si comincia a decidere di dare vita a “isole nella corrente” informativa, che pure resta torbida, dando spazio a un po’ di buone notizie, liberando il bene dal preconcetto marchio dell’irrilevanza. Bel segno. Non è la fine dell’impero del male, ma è una potente obiezione di coscienza all’andazzo corrente. Possiamo considerare tutto questo, come lei suggerisce, una sorta di mediatico soprassalto “ecologico” contro il nero, nero, nero inquinamento degli occhi, della parole e dei giudizi? Sì, possiamo. Si accenna, spero che si irrobustisca e rompa i recinti delle “isole nella corrente”. E anche questa sarà davvero una notizia: buona, sempre più buona.