Il capolavoro disegnato da Ronaldo. Il bello di gioire per il merito degli altri
È ricchissimo, bello, forte. E vince sempre. Ha la “tartaruga” a scolpire i muscoli, lo sguardo lievemente arrogante, la maglietta senza una piega neanche a pagarla. Se lo guardi a fine partita sembra che neppure abbia sudato. Cristiano Ronaldo è il simbolo, l’archetipo dell’antipatico di successo, quello che ti viene voglia di fischiare a ogni tocco di palla. E invece no.
A Torino succede l’esatto contrario. È il 19° del secondo tempo e uno stadio intero, quello della Juventus, squadra che ha appena messo al tappeto, si alza in piedi ad applaudire. Troppo grande il gesto atletico per restare seduti, troppo perfetta la sua rovesciata per non testimoniare la gioia di esserci, di aver visto, di aver capito. Standing ovation per una magia, un’apparizione, un capolavoro. Un disegno nell’aria di cui sono capaci solo i grandi artisti, i “geni” del pallone, quelli che appartengono a ogni squadra, che sono di tutti.
Oltre le barriere del tifo, della geografia, della cultura. Cristiano Ronaldo, parliamo del calciatore non della vita privata, è uno che ha avuto in dono un talento e l’ha fatto fruttare. Con l’impegno, la costanza assoluta, la cura maniacale dei dettagli. Il primo ad arrivare agli allenamenti e l’ultimo ad andarsene. Niente riposo neanche nei giorni di festa, almeno nove ore di sonno a notte. Un mix di fantasia e fatica, di genialità e sacrificio. Nel Real Madrid come nella nazionale portoghese, cui non rinuncia neanche se sta male. Per questo l’ovazione di martedì a Torino, a dispetto del tre a zero rimediato dalla Juve, ha ancora più senso.
È un premio alla dedizione oltreché al successo, alla capacità di colpire un pallone all’altezza delle nuvole ma anche all’umiltà di spendersi senza mai tirarsi indietro. E il pensiero va alla vita di tutti i giorni, a quando noi gente comune, noi impiegati, giornalisti, medici, idraulici, agricoltori, studenti, sappiamo gioire della gioia degli altri, festeggiare una gratifica, un premio che non sia nostro. Perché, diciamoci la verità, meritocrazia è una bella parola ma il merito, se è degli altri, un po’ ci infastidisce.
E di fronte a una persona di successo la prima tentazione è cercare la cosa che non va, lo sbaglio mai confessato, il passato di cui vergognarsi. Spesso siamo così presi da noi stessi che finiamo per non vedere il bello degli altri, che dimentichiamo una verità persino banale: se condiviso senza prosopopea e arroganza, lo star bene è contagioso, crea comunità, blocca piagnistei e permalosità, fa vivere anche le sconfitte con leggerezza, senza inutili drammi. Come il capitolo triste di un libro però a lieto fine. Standing ovation per chi ce l’ha ricordato.