Scuola paritaria, culture forti e valori costituzionali . Il "pubblico" non è il deserto delle identità
Dietro il dibattito che si sta sviluppando attorno all’Istituto Sacro Cuore di Trento, sono in gioco dimensioni molto importanti della nostra vita civile e della nostra democrazia. Non a caso ieri La Repubblica ha ospitato un editoriale sul concetto di 'pubblico' di una delle migliori politologhe italiane, Nadia Urbinati, professore alla Columbia University di New York, e La Stampa un intervento su profondità e limiti della libertà degli enti 'di tendenza' (come una scuola di ispirazione cattolica) di un giurista del calibro di Vladimiro Zagrebelski. Qui pare utile soffermarsi sulla tesi di Urbinati (che raccoglie e sviluppa una idea molto diffusa perché apparentemente logica) che deve farci riflettere, e molto.La politologa sostiene che sia «irragionevole stupirsi» del presunto comportamento discriminatorio della preside della scuola di Trento. Infatti, per Urbinati «Il paradosso è chiaro: la difesa dell’identità è un diritto della scuola privata che però non può essere finanziato con i soldi pubblici. Le scuole private che accettano di ricevere i soldi dello Stato devono sottostare alle stesse norme delle scuole pubbliche vere». Secondo Urbinati, quindi, se la preside dell’Istituto Sacro Cuore avesse licenziato (fatto tutto da dimostrare) l’insegnante per il suo orientamento sessuale non ci sarebbe nulla di 'scandaloso' perché, a suo dire, questo diritto farebbe parte parte dell’identità culturale; per lei lo scandalo starebbe invece nel finanziamento pubblico alle scuole «private», che se vogliono mantenere l’identità debbono rinunciare a questa ingiusta regalia. Il messaggio è, dunque, chiaro: non è possibile coniugare finanziamento pubblico e identità, poiché il 'pubblico' significa 'rinunciare alle identità culturali' e perché, scrive ancora Urbinati, «le buone ragioni dei religiosi non possono essere usate nella sfera pubblica, che è abitata da tutti, credenti in diverse fedi e non credenti». Se lo 'pensiamo' bene, questo ragionamento si basa su due ipotesi radicali e molto discutibili: a) che il finanziamento pubblico può andare soltanto a istituzioni statali non identitarie, le sole 'vere' scuole pubbliche; b) che la sfera pubblica non sia il luogo delle identità diverse in dialogo tra di loro, perché quando si entra nella sfera pubblica occorre lasciare sull’uscio della piazza radici e identità, per incontrarsi in una terra di nessuno, abitata da gente o senza identità o che le considera faccende puramente private, da non raccontare in pubblico. Se invece vuole raccontarle in pubblico, e avere soldi statali, deve amputarle delle componenti specifiche, e così essere legittimato a usare per sé l’aggettivo 'pubblico'.La vera sfida sottesa a tesi come quella articolata da Nadia Urbinati è decisiva. E se vogliamo capirla, e magari criticarla, dobbiamo avere il coraggio di spingere il ragionamento fino in fondo. È la presenza del finanziamento pubblico alle scuole paritarie (se vogliamo proprio chiamarlo 'finanziamento' vista l’esigua quota di costi che copre: circa un dodicesimo di quanto lo Stato spende effettivamente) che consente alla Urbinati e a tutti noi di legittimamente criticare e discutere le scelte di una dirigente di una scuola 'privata' (in realtà paritaria), come critichiamo e discutiamo le scelte di ogni scuola statale. Esattamente allo stesso modo. Il rischio, vero, per la democrazia è oggi rappresentato da quelle scuole for-profit, in grande crescita in tutto il mondo, che in virtù dell’assenza di finanziamenti pubblici, si tirano fuori dal dibattito democratico, e si sentono libere di assumere e licenziare in base ai propri 'valori', senza darne conto a nessuno (forse solo alla legge in seguito a qualche causa).La democrazia morirebbe veramente il giorno in cui una scuola for-profit dicesse di dover rispondere solo ai propri 'clienti' paganti e alle loro preferenze, e noi dicessimo che ha ragione. L’aspetto più delicato del ragionamento di Urbinati è, però, pensare che una scuola cattolica senza soldi pubblici sarebbe legittimata a licenziare (fatto, è bene ripeterlo, tutto da dimostrare nel caso di Trento) insegnanti sulla base del loro orientamento sessuale e a prescindere quindi da loro eventuali conflitti di interesse, scorrettezze e colpe gravi. Ma che idea e quale narrazione si vuol radicare a proposito dei cattolici? Come li si dipinge? La democrazia, i diritti fondamentali della persona e la sua libertà non sono forse anche il frutto del cristianesimo e dei suoi carismi? E ancora: vogliamo veramente – cattolici e non – scuole auto-referenziali e non democratiche perché essendo finanziate da genitori o da sponsor assumono e licenziano senza rendere conto delle loro scelte? Democrazia è dare pubblicamente ragione delle proprie scelte. E se una scuola, soprattutto se materna ed elementare, rispetta i parametri e i criteri fissati dalla comunità civile, ha diritto ad usufruire della fiscalità pubblica. Scuole cattoliche, ebraiche, valdesi, buddiste, musulmane…, purché si muovano senza ambiguità e senza ombre dentro l’arco dei valori costituzionali, e purché non abbiamo il profitto come movente, ma un saldo progetto educativo. Il finanziamento, poi, della scuola paritaria è una questione completamente diversa da quelle al centro della vicenda della dirigente di Trento e della sua insegnante, fatti che possono ben essere discussi, proprio perché pubblici, nella Chiesa e nell’agorà pubblico. Le buone ragioni pubbliche dell’opportunità civile ed economica del finanziamento delle scuole pubbliche non statali sono tante, e si chiamano sussidiarietà, libertà, risparmio per lo Stato... Ma questo è appunto un altro discorso, che Avvenire, pubblicamente, sviluppa ormai da decenni.La presenza di scuole cattoliche in Italia è una cosa molto seria. È parte essenziale del suo patrimonio civile ed educativo, ed è dimensione essenziale di una biodiversità culturale che è una delle maggiori ricchezze di ogni popolo, una ricchezza che stiamo perdendo per una ideologia del pensiero unico in decisa e veloce avanzata. E invece bisogna saper amare e affermare quella buona democrazia dove le istituzioni e le comunità discutono le proprie scelte nella sfera pubblica, offrendo le loro buone ragioni nella convivialità delle differenze.