Problema antropologico. Identità e integrazione, reali antidoti a ogni "sostituzione"
La “grande sostituzione”, la “sostituzione etnica” non è il nostro nemico. Per dissolverci, italiani, europei, non abbiamo bisogno di nemici esterni. Semmai il problema è la “sostituzione antropologica”: non sappiamo più chi siamo, e per questo tanti di noi cominciano ad avere paura di tutto. Lo stiamo facendo da soli, da tempo, a grandi passi, e senza bisogno di nessuno che venga da fuori. L’involuzione cammina così. Enfatizzando, per esempio, come urgenza nazionale la maternità surrogata e non la sofferenza di milioni di persone impoverite, diritti civili più di diritti umani, mettendo in sordina l’abbandono terapeutico degli anziani ed enfatizzando il rischio dell’accanimento terapeutico – che la Chiesa cattolica da sempre ritiene sbagliato e persino blasfemo – amplificando i casi limite per normalizzare eutanasia e suicidio assistito, anziché aiutarci, e unirci, per umanizzare la morte, il morire, per combattere il dolore, la disperazione e l’isolamento, senza “chiamare” la morte. Si perde il senso del limite e di chi siamo in tanti altri modi. Tanti “io” e poco o niente “noi”. È questa “la sostituzione antropologica”.
È cominciata da tempo la perdita del “chi siamo”, la memoria di noi stessi: solo presente. E stiamo facendo tutto da soli. Non c’entrano gli immigrati, anche se aumentano un po’ gli arrivi. In un’Africa che nel 2050 sarà un quarto dell’umanità, e che ha un reddito 13 volte più basso di quello europeo, solo uno su quattro di quelli che emigrano vuole venire in Europa. I tre quarti si fermano in Africa. Solo 2 su 100 pensano all’Italia.
È benvenuta, necessaria, ogni politica che seriamente sostenga famiglie e nuove famiglie. Ma è utile ricordare che è impossibile una inversione istantanea della curva dell’invecchiamento precoce e dello spopolamento, ci vogliono almeno vent’anni. Non può cambiare il saldo negativo tra nuovi nati (scesi a meno di 400mila in Italia) e decessi se il tasso di fertilità è inferiore a due figli per donna, come in tutti i Paesi della Ue. Perché sono diminuite le donne giovani e non solo perché il primo figlio si sceglie di farlo dopo i 30 anni. Anche in Francia, con il tasso di fertilità europeo più alto, dopo quasi 25 anni di straordinario e generoso (sinora inarrivabile per noi) welfare per giovani coppie e donne, siamo a 1,86 figli per ogni donna. Chi parla preoccupato, da ministro, di “sostituzione etnica” ha spiegato che non sa delle idee di Hitler, del Piano Kalergi, la teoria complottista creata in Austria nel 2005 per dire che gli immigrati fanno parte di un piano per distruggerci, o di Renaud Camus, che rilancia dal 2011 la teoria della Grande sostituzione. Quando non si sa, non si dovrebbe parlare. «L’antisemitismo ci sarebbe lo stesso anche se non ci fosse più nessun ebreo». Ne ragionavo una volta con Amos Luzzatto, a Palermo, ai margini di un incontro per la pace. Era stato cacciato da scuola a dieci anni, per le leggi razziste del 1938: «Non c’è bisogno della realtà per creare il nemico assoluto», diceva.
Siamo invece dentro una velenosa “sostituzione antropologica”. Che ci fa perdere l’anima, la memoria di chi siamo. Di essere parte di una democrazia inclusiva, dove diritti umani e diritti di cittadinanza devono tendere a coincidere, in debito verso quanti non vivono nella stessa democrazia e regime di libertà. Come “umani”, e cristiani, la sfida è quella di non perdere la capacità di immedesimarci nell’altro, ricacciando dietro un fiume di parole evidenze semplici: che uno che rischia di affogare va soccorso. Che quei bambini a Cutro sono senza nome perché sono stati inghiottiti dall’acqua anche i genitori: e questa è una vergogna. Indelebile. Da cui partire per essere migliori.
Chi propone un’Europa di Stati sovrani e non un’Unione Europea, i neo-nazionalisti, sbandierano la sostituzione etnica per diffondere una nuova paura, per evitare l’arrivo dei “barbari”. Un visione frutto, a dispetto dei proclami, di «un’incertezza identitaria strutturale», scrivevo un anno fa ne La Grande Occasione. «Come se gli europei – e gli italiani – non avessero la forza culturale, sociale, economica, per non essere “inghiottiti” da meno di un profugo, da meno di un rifugiato ogni 180, o ogni 100 europei nei luoghi in cui i profughi sono di più. Come se non si sapesse trasmettere niente né sul piano dei valori che su quello dei modelli sociali, culturali, umanistici, religiosi. Rinunciando in partenza». Non è un destino. L’integrazione è antidoto alla paura e a ogni “sostituzione”. Ma occorre ritrovare, davvero, la nostra identità.