Lettere. Ibrahim morto d’indifferenza acuta. E l’immedesimazione che ci manca
Caro Avvenire,
i quotidiani di Napoli nei giorni scorsi riportavano della morte di un ragazzo ivoriano di 24 anni, Ibrahim Manneh. Ibrahim si era sentito male domenica mattina. Giunto al pronto soccorso del Loreto Mare, secondo l’ospedale si sarebbe allontanato spontaneamente prima della visita, secondo chi lo accompagnava sarebbe stato frettolosamente dimesso. Comunque sia, il malessere si è aggravato. Un amico racconta di avere portato Ibrahim in una farmacia, di aver chiamato inutilmente un’ambulanza, di aver chiesto invano soccorso a una pattuglia e a un tassista, fino a decidere di portarlo a spalla alla guardia medica. Qui, resisi conto della situazione, hanno chiamato l’ambulanza, che è arrivata celermente. L’ivoriano è giunto alle due di notte al Loreto Mare ed è morto poco dopo. Diagnosi, "addome acuto". Una banale appendicite degenerata in peritonite.
Ma in verità, Ibrahim non è morto di "addome acuto". È morto di una malattia virale che da tempo si manifesta nella nostra Italia, alla quale non so dare un nome. Sono troppi quelli che hanno deciso che non valeva la pena di soccorrerlo, per cercare un solo responsabile. Persone troppo diverse per cercare una sbrigativa spiegazione: medici, farmacisti, tassisti, agenti, passanti. Sta di fatto che sono stati sostanzialmente complici nel rifiutare la richiesta di soccorso di un giovane visibilmente sofferente e indifeso. Conosco questa complicità, l’ho vista all’opera. Ricordo una donna con lievi disturbi psichici, capace di grande amicizia, rifiutata da una casa di riposo perché evidentemente ancora troppo viva, morta dopo qualche mese di "ricovero" in Rsa: i suoi polsi portavano i segni dei legacci con i quali la immobilizzavano. Ricordo una sera alla stazione dei Campi Flegrei, quando, in risposta alle mie richieste insistenti di inviare un’ambulanza per soccorrere una persona senza dimora, sono stato minacciato e invitato a farmi i fatti miei (episodio a suo tempo segnalato alla Questura). Ricordo un gruppo di ragazzini che al centro storico fecero lo sgambetto ad una donna srilankese, evidentemente incinta, e soprattutto la reazione dei presenti: nessuno ha fatto nemmeno il gesto di aiutarla a rialzarsi. Assisto quotidianamente ad atteggiamenti ingiustificatamente aggressivi verso i mendicanti. Negli uffici pubblici gli impiegati di norma danno del lei, agli immigrati il tu. Potrei continuare, lo dico senza alcun compiacimento, piuttosto con amarezza. Potrei anche dire di tante reazioni di segno opposto. Ma queste le considererei normali. Il racconto dell’agonia di Ibrahim mostra una verità terribile: l’attitudine al disprezzo, piccola o grande che sia, genera una catena di complicità che conduce alla morte, anche a quella della nostra convivenza civile. Come reagire? La saggezza antica del libro del Siracide ci viene in soccorso: «Non esasperare chi è in difficoltà…, non distogliere lo sguardo dall’indigente. Da chi ti chiede non distogliere lo sguardo, non dare a lui l’occasione di maledirti, perché se egli ti maledice nell’amarezza del cuore, il suo creatore ne esaudirà la preghiera».
Se la storia di Ibrahim Manneh, 24 anni, è andata come la riferisce il lettore e come la raccontano i giornali locali, è una tremenda testimonianza di indifferenza, nel cuore di quella città segnata dal male camorrista, ma resa viva e speciale da una grande tradizione di umanità e di accoglienza che è Napoli. Un ragazzo che si accascia per il dolore per strada e tanti che voltano lo sguardo, fingono di non vedere, fino a che, in spalla, un amico non lo porta alla guardia medica. In spalla, come in una città di tempi remoti; e troppo tardi, quando l’ivoriano arriva finalmente all’ospedale. Ma non è morto, quel ragazzo, di peritonite, scrive il signor Brancaccio, è morto di un’altra malattia, di indifferenza. La indifferenza che egli stesso ha visto alla stazione dei Campi Flegrei, quando chiese aiuto per un clochard, e nel centro di Napoli, quando quella donna srilankese incinta fu fatta cadere da dei ragazzini, e nessuno la aiutava a rialzarsi. (Anche questo, che dei ragazzi prendano a bersaglio una donna gravida, sconvolge).
So bene che tanti italiani si percepiscono "invasi" da una moltitudine di migranti. So che in molte nostre città, e anche qui a Milano, in certe zone trovi un mendicante africano ogni cinquecento metri. Sono tutti giovani e apparentemente robusti e forti, e ti smarrisce che siano lasciati in mezzo a una strada a elemosinare, probabilmente organizzati da un racket che li porta e li preleva, a ore fisse. Non puoi dare soldi a tutti, ma incrociare i loro occhi neri ti imbarazza. "Va’ a lavurà", si diceva una volta a Milano, se chi chiedeva la carità aveva buone braccia giovani. Ma ora non si può dire nemmeno questo. A lavorare, dove? Per chi? Chi è in attesa di uno status da rifugiato (e non sa se l’otterrà) per legge non può lavorare. Può farlo solo in nero, imparando l’inganno e il più delle volte subendo il grande inganno dello sfruttamento. Di fronte a questo, la pietà del singolo, quando anche ci sia, non basta, siamo di fronte a un fenomeno serio, che deve essere governato seriamente. Cioè ben regolato.
Intanto, si allarga fra le crepe del tessuto sociale una nuova, dura indifferenza. Quella della notte di Napoli, con un ragazzo con le mani sul ventre che chiedeva aiuto, e a nessuno importava. Comunque la pensiamo sull’immigrazione, la sorte di Ibrahim ci deve fortemente interrogare. In casi come questi penso: se fosse stato uno dei miei figli, immigrato in un Paese lontano, a domandare soccorso, e se accanto a lui nessuno si fosse fermato? Se me lo riportassero morto, a 24 anni, nel fiore degli anni, quanto disperata sarei? Poniamoci questo pensiero, lavoriamo di immedesimazione, e vedremo con angoscia la portata della storia di Napoli. Se poi a qualcuno, mentre si immedesima, insorge l’obiezione: ma questo non è uno dei nostri figli, questo era uno venuto dai barconi, un morto di fame, un nero… Beh allora vuole dire che la malattia virale di cui parla il signor Brancaccio va attecchendo, e nemmeno lenta, inavvertita quasi, anche fra noi. E che le antiche severe parole del Siracide ci riguardano, ci riguardano totalmente.