Opinioni

Commento. I veri poveri han bisogno di qualcosa che non riescono nemmeno a dire

Ferdinando Camon martedì 26 dicembre 2023

Non è detto che, se incontriamo qualcuno che ha bisogno di noi, lo riconosciamo immediatamente, e che immediatamente gli diamo l’aiuto che gli serve. Non è questione di bontà, può essere questione di intelligenza: non comprendiamo, il sistema di cui facciamo parte non ci permette di capire.

Ricordo per esempio che ero in un gruppo, mangiavamo quel che volevamo, ci prendevamo i piatti già pronti e li portavamo al nostro tavolo, poi tornavamo a prenderne altri, liberamente, chi voleva poteva. Dov’eravamo? Ah sì, in Turchia. In un Club Mediterranée. Bellissimo. Cioè, sarebbe stato bello, se oltre la siepe non ci fossero stati ragazzini che ci guardavano mangiare, noi a bocca piena e loro a bocca vuota. Non puoi mangiare se chi ha fame ti guarda.

Altro ricordo: ero a fare una conferenza, mi presento la sera prima perché sono un nevrotico, ceno da solo in un ristorante all’aperto, a un tavolo sul marciapiede, due ragazzini mi guardano, poggiano il mento sul mio tavolo, e si chiedono l’un l’altro: «Cosa magna questo?». «Volete una pizza? Sedete». Si siedono, gli faccio portare pizza e Coca-Cola, e quella è stata una bella cena, il piacere non era mangiare ma guardarli mangiare. Quando l’altro ha un problema e te lo fa capire, lo puoi aiutare. Il problema è quando non te lo fa capire.

Ho lavorato in un Centro Antidroga, aveva sede in un ospedale psichiatrico, mentre eravamo in due-tre a discutere, dritti in piedi, sentivo grattarmi le scarpe: era un “matto” che voleva spazzare il pavimento. “Prendiamo un caffè?” fa il mio presidente, che era il primario psichiatra. Un cameriere al banco ci fa il caffè. Ma un altro cameriere prende la tazza e la porta via, ne mette un’altra, vuota. La riempie. La prendo per berla. Un altro cameriere me la strappa di mano, ne mette un’altra, vuota. Non so che fare. Il primario mi trascina fuori, a passeggiare. Un matto mi segue passo passo, chiedendomi: “È il dottor Meneghetti lei?”. “No”. “Ma è il dottor Meneghetti lei?”. “No”. Il primario mi fa: “Gli dica di sì”. “È il dottor Meneghetti lei?”. “Sì”. Il matto mi si tuffa addosso, mi prende la mano, e la copre di baci. Non mi lasciava più. Ero imbarazzatissimo, anzi spaventato. Volevo recuperare la mia mano. Non capivo cosa voleva, chi era il dottor Meneghetti, cosa aveva fatto per lui, chi era lui, di che cosa aveva bisogno.

I veri bisognosi son questi: quelli che han bisogno di qualcosa ma non riescono a dircelo, quelli per cui dovremmo fare qualcosa ma non riusciamo a capire che cosa. Quelli che sono andati via di testa. E che sono ricoverati nei manicomi. Nessuno li va a trovare. I parenti che stanno bene se li dimenticano. Sono i cosiddetti matti. Ho lavorato in quel centro nell’ospedale psichiatrico, è il luogo della mia inutilità. I matti sono il segno della nostra sconfitta.