Alla fine sono state le elezioni dello scontento. E a vincere, persino in modo rocambolesco, sono stati quelli che agli scontenti han saputo dare le risposte più convincenti. Vince la Lega di Umberto Bossi (e Cota e Zaia...) che intercetta come mai prima il "vento del nord" grazie anche a toni meno veementi e più rassicuranti, all’archiviazione degli slogan sferraglianti e a una calibrata selezione delle idee-forza (e, adesso, dopo il gran bottino, li aspettiamo alla prova). Vince Silvio Berlusconi anche se il suo Pdl flette visibilmente: dopo una campagna con accenti da grande oppositore (nei confronti di «toghe» e «sinistre»), il premier arriva a controllare attraverso una maggioranza politicamente chiara eppure a geografia variabile (con la Lega al Nord, con l’Udc in cruciali aree del centrosud) ben 11 regioni su 20 (nel 2000, massimo storico precedente, era arrivato a 9). Vince Nichi Vendola capace nella "sua" Puglia di imporsi al Pd squassato da irresolutezze politiche e dalla «questione morale» pugliese e meridionale (i risultati in Campania e Calabria sono eloquenti) e di far pagare a Pdl e Udc il prezzo di divisioni (non solo) locali. E vince, soprattutto, Renata Polverini nel Lazio dei troppi pasticci: vince con merito, sul filo di lana, grazie a un via via più incisivo passo "valoriale" che l’ha sostenuta contro ogni speranza "politica" nell’incredibile corsa a ostacoli (o, meglio, a sgambetti) che si è ritrovata a disputare con la radicale ipersponsorizzata Emma Bonino.Sì, sono state le elezioni dello scontento. Lo si sentiva nell’aria di quest’Italia che non esce dalla crisi, lo si intuiva dall’andamento della più urtante delle campagne elettorali, lo si coglieva dalle perplessità maturate nel mondo cattolico impegnato di fronte alle spiazzanti proposte politico-programmatiche maturate soprattutto in Lazio e Piemonte (guarda caso teatro delle sconfitte chiave del Pd "radicalizzato"), lo si è visto nel responso delle urne. E nel verdetto secco dell’affluenza: quel meno 7,9% che non scolpisce solo il dato di un’astensione con l’esclamativo (ben oltre il terzo dell’elettorato), ma che disegna un lancinante punto di domanda nei confronti di una classe politica che deve dimostrarsi, nel suo complesso, a prova di corruzione, degna delle attese vere della gente e capace, una buona volta, di uscire dalla retorica della contrapposizione pregiudiziale e piazzaiola.A giudicare da certi toni di vincitori e vinti sarà dura. Anche perché, come al solito, tutti s’industriano a dissimulare le sconfitte. Ma i verdetti sono chiari.Il centrosinistra si lecca le ferite, sebbene riunisca quasi ovunque attorno al Pd di Pierluigi Bersani anche le sigle dell’«altra sinistra» e sebbene conquisti in questa tornata più amministrazioni del centrodestra (7, ma ne aveva 11). Il saldo totale è pesantemente negativo: nel 2008 l’ex area unionista controllava 15 Regioni su 20, in due anni ne ha dovuto cedere 7. E c’è dell’altro: il progetto di sperimentare un’alleanza strutturale con il terzo polo centrista non è decollato e per di più, a causa della scelta di esaltare il rapporto con i radicali del duo Pannella-Bonino, si sono prodotti dolorosi strappi interni. L’Idv di Tonino Di Pietro tiene invece le sue posizioni anche nella prova amministrativa, e non è un risultato da poco, visto che ha subìto la concorrenza sul terreno del
j’accuse antipolitico delle "Cinque stelle" di Beppe Grillo.Anche l’Udc di Pier Ferdinando Casini mantiene la sua forza, ma incamera un risultato in chiaroscuro. Può dire di aver pesato in positivo in cinque casi (3 con il centrodestra; 2 con il centrosinistra) e di essere stata comunque determinante in Puglia. Ma è clamorosa la batosta piemontese, dove si era inopinatamente allineata alla governatrice Bresso dopo esserne stata fiera oppositrice per incompatibilità valoriale. E qui e in Liguria il dato è secco: a fianco del Pd, l’Udc vale meno del 4%.Sì, per tutti – vincitori e sconfitti – c’è molto da riflettere. Da cambiare. E da fare.