Opinioni

Caso Volkswagen. I tedeschi truccano l’auto. Il mondo chiede una svolta

Alberto Caprotti martedì 22 settembre 2015
​Visto dall’Italia, che dell’argomento se ne intende parecchio, il dramma che ha colpito un marchio noto per la sua perfezione – o almeno per la sua serietà – alimenta la sensazione che anche i tedeschi sono umani, cioè imperfetti e portati a imbrogliare. Ma il “diesel-gate” che sta sbriciolando in queste ore la reputazione della Volkswagen, dice molto di più. Per prima cosa suggerisce che con le autovetture, almeno negli Stati Uniti, non si scherza. E che chi sbaglia, paga. La reazione delle autorità di controllo Usa di fronte alla frode operata dal costruttore tedesco è stata pesantissima. La minaccia di una multa di 18 miliardi di dollari alla Volkswagen per aver “truccato” il sistema di calcolo delle emissioni nocive potrebbe – se confermata dai fatti – mettere in ginocchio il colosso tedesco. E non è comunque quantitativamente in linea con altre sanzioni inflitte recentemente ad altri costruttori sorpresi con le mani nel sacco. Ad iniziare dai 900 milioni di dollari di multa comminati a General Motors per il caso degli airbag difettosi, che pure avevano indirettamente causato decine di morti. O l’ancora più recente accordo sulla base di 105 milioni raggiunto da Fiat-Chrysler con le autorità americane per risolvere la disputa sui “richiami” di milioni di auto che non presentavano adeguati requisiti di sicurezza. La ragione è semplice: negli Stati Uniti i reati contro l’ambiente sono considerati i peggiori in assoluto, perché colpiscono tutti, e indistintamente la società di oggi e di domani. E sono tali da abbattere ogni remora sugli interessi industriali e persino occupazionali che la loro punibilità può minare. Un esempio per tutti. Soprattutto per l’Europa, dove i controlli sui consumi e le emissioni delle autovetture sono, da sempre, tutt’altro che attendibili. Complice un sistema di rilevazione antico e irreale che legalizza l’inganno. Ma il “diesel-gate” tedesco è anche un monito forte soprattutto per la Germania stessa, il paese Ue con il parco auto più inquinante d’Europa, guidato da una donna che – per proteggere il patrimonio dell’industria di casa – è stata capace di spostare di un anno i termini della legge comunitaria che dal 2021 obbligherà di limitare le emissioni medie della gamma di ogni costruttore a 95 g/km di CO2. Gli interessi sul tappeto sono altissimi, e a testimoniarlo basta la frase pronunciata meno di un anno fa proprio da Martin Winterkorn, il numero uno di Volkswagen il cui trono ora vacilla terribilmente, secondo il quale «ogni grammo di emissioni che riusciamo a tagliare costa al mio Gruppo 100 milioni di euro». La questione ambientale, insomma, anche se per altri motivi, è il primo pensiero pure di chi le auto le pensa e vende. Sarebbe ingeneroso però dimenticare gli investimenti mostruosamente forti messi in campo in questi anni dai costruttori per una mobilità più “verde” e sostenibile. Volkswagen per prima, la qualità delle cui auto non può comunque essere messa in discussione nemmeno di fronte ad un clamoroso inganno come quello organizzato negli Stati Uniti. L’industria dell’auto in questo senso si è prodigata dieci volte tanto quello che hanno finto di fare altri settori industriali, ben più colpevoli di quel 15% sull’inquinamento globale che attendibili stime imputano al traffico e alle quattro ruote in generale. La seconda verità suggerita dai fatti di queste ore, è che il mondo dell’auto ora dovrà fermarsi a riflettere sulle sue strategie, ma che in questi frangenti ha sempre avuto il coraggio di chiedere scusa. O almeno di ammettere i propri colpevoli errori. Lo ha fatto Martin Winterkorn ieri, lo fece Mary Barra quando GM fu condannata, e persino Fca (nonostante la sua “anima” italiana, forse poco abituata a questo tipo di ammissioni, potrebbe ironicamente sottolineare qualcuno) impegnandosi davanti alle autorità americane ad investire almeno 20 milioni per raggiungere gli standard di sicurezza sulle sue vetture richiesti dal patteggiamento. A noi che guidiamo, per passione o per forza, resta in ogni caso un cattivo sapore in bocca. Amaro anche se non amarissimo, questa volta. Ma che sa di fumo denso, e non è affatto buono.