Lettere. Sorrisi genuini dei bambini africani e la crescita abnorme dell'Io occidentale
Caro Avvenire,
ho di fronte a me tre immagini. Nella prima vedo un gruppo di bambini di un quartiere surreale di Calcutta che ha per strada la rotaia: eppure questi bambini, che passano le giornate sui binari, sorridono, giocano, si divertono, scherzano. Ma quello che mi ha colpito maggiormente è il loro sorriso. La seconda immagine è di una delle tante terre dell’Africa e anche qui i bambini, dagli occhi immensi, mostrano al fotografo, con i loro bianchissimi denti, un sorriso bellissimo. La terza immagine riprende un gruppo di nostri ragazzi che sorridono facendosi un “selfie”. Ebbene, ho guardato e riguardato i loro sorrisi e mi è sembrato che quello dei nostri ragazzi sia un sorriso che «dura meno a lungo». Forse hanno perso, o non hanno mai imparato a sentire veramente il sorriso che nasce, e si forma nel fondo del nostro cuore. Oggi siamo infestati da sorrisi. Ma che durata hanno e, tante volte, che valore hanno? Ogni tanto mi capita, mettendo a posto alcuni cassetti, di ritrovarmi tra le mani qualche vecchia fotografia nella quale noi sorridevamo: quanti ricordi positivi ritrovo in me e quanta gioia anche se il tempo è passato! Forse dovremmo imparare a riappropriarci del vero senso del sorriso.
Ho fatto un’osservazione simile sfogliando un album di foto di famiglia, immagini di lontani bisnonni, e di una giovane nonna vestita alla maniera della Belle Époque. Ho notato che nei ritratti di una volta le persone normalmente non sorridevano; stavano serie anzi, assorte. Ho anche una foto di mio padre con la sorellina, da bambino, vestito elegante per l’occasione, perché era figlio di gente semplice: nemmeno mio padre, a otto anni, sorrideva, benché non nascondesse la fierezza per un bastone col pomolo dorato che gli avevano messo in mano. Ma la foto più sorprendente è stata quella del matrimonio dei nonni materni, nel 1912. Tutti eleganti e compiti, ma nessuno, nemmeno la sposa, che sorridesse. Fissavano tutti l’obiettivo, intenti, pensosi. Mi sono domandata: è per i lunghi tempi di posa che la gente nelle foto d’epoca non sorrideva come oggi? O forse una fotografia era un tempo un fatto così solenne, che se ne era intimiditi? Oppure non c’era, una volta, l’imperativo di sorridere, sorridere sempre davanti all’obiettivo, come fosse uno specchio in cui “bisogna” mostrarsi spensierati e felici? Per contro, oggi nei selfie tutti sorridono, quando non fanno addirittura smorfie. E ci si fotografa reciprocamente, e anche da soli, continuamente. A volte ossessivamente. L’altro giorno a Venezia osservavo una scolaresca in piazza San Marco, totalmente intenta a fare scatti ai compagni e a se stessa, e quasi indifferente a quella straordinaria piazza. Una inconsapevole idolatria di sé, della propria immagine, sempre esibita con lo stesso sorriso di ordinanza. Un guardare però a se stessi tanto, fino a non vedere ciò che c’è attorno a noi. Per contro è vero, come dice il lettore, che nei Paesi del Terzo mondo gli uomini e i bambini sono ancora un po’ diversi da noi, davanti all’obiettivo. Hanno sorrisi veri, occhi splendenti i bambini che giocano fra baracche e periferie, e che si meravigliano davanti a uno smartphone, perché, loro, nessuno li fotografa mai. Lo psicoanalista Erich Fromm osservava, negli anni Settanta del secolo scorso, le prime comitive di turisti giapponesi che calavano sulle città della vecchia Europa e, quasi senza guardare con i propri occhi, mitragliavano scatti, a raffica. Fromm ne faceva una metafora della alternativa che c’è tra l’avere, il possedere, e l’essere. Con quegli scatti voraci i turisti credevano di “possedere” il Colosseo o il Canal Grande, invece di restare affascinati a contemplarlo. Tanti anni dopo, forse anche noi siamo diventati un po’ come quei turisti. E non fotografiamo nemmeno il Colosseo, ma noi stessi, sorriso automatico e Colosseo in secondo piano. Particolare da poco se vogliamo, eppure indicativo di una certa crescita abnorme dell’Io, marchio del tempo in cui viviamo.