Opinioni

Editoriale. I semi e il sangue della speranza

Lucia Capuzzi sabato 4 gennaio 2014
Paolo VI lo definì profeticamente «il Continente della speranza». E in effetti, proprio l’America Latina – dopo una lunga parentesi da desaparecida sulla scena mondiale – ha lanciato a un Occidente flagellato dalla recessione segnali incoraggianti. Uscita semi-indenne dalla crisi, la regione cresce a tassi medi superiori al 4 per cento e milioni di esseri umani sono fuori dalla povertà. Le luci, pur scintillanti, non riescono tuttavia a diradare le dense ombre che si allungano sul Continente. Resta – come denunciato di recente dall’Onu – il più diseguale e violento del pianeta. A questi drammatici record, se ne aggiunge un altro, intimamente connesso. Per il quinto anno consecutivo, l’America Latina detiene il tragico primato di operatori pastorali assassinati: 15 sul totale mondiale di 22, registra il rapporto dell’agenzia Fides. Un dato doppiamente preoccupante. In primo luogo, perché il bilancio complessivo del testimoni che hanno pagato con la vita la fedeltà al Vangelo è raddoppiato rispetto al 2012.Il picco di delitti contro sacerdoti, religiosi, laici impegnati, in secondo luogo, continua a consumarsi a Sud del Rio Bravo, l’area con maggior densità di persone che si professano cattoliche. Un paradosso crudele. Almeno in apparenza. Nella regione – i primi cronisti-missionari lo hanno documentato minuziosamente – la religiosità in senso lato permea ogni aspetto della vita umana e sociale. Perfino i più atei e anticlericali hanno un inconsapevole quanto spiccato senso del sacro. Narcos inclusi, seppure le loro finalità siano antitetiche rispetto a quelle evangeliche. I "signori della droga", negli ultimi anni, non si accontentano più di utilizzare il Continente come trampolino verso i ricchi consumatori del Nord del mondo. Per consolidare il loro potere – e ampliare il business– devono insinuarsi nel territorio. Radicarsi, appropriarsene, stravolgendone le strutture sociali più elementari: comunità, famiglie, associazioni. I trafficanti propugnano l’ideologia del denaro a ogni costo, della sopraffazione come regola di vita, della barbarie come metodo di governo. Gli uomini sono ridotti a merce, da utilizzare – fin quando servono – per realizzare gli affari. La predicazione cristiana diventa, dunque, un antagonista quasi naturale. Tanto più pericoloso quando maggiore è lo sforzo per costruire un "narco-immaginario". In cui la religiosità popolare e naturale viene snaturata, stravolta e trasformata in simulacro per veicolare i "narco-valori".L’emblema di questo processo è la Santa Muerte: gli abiti richiamano il manto della Vergine di Guadalupe. La stoffa nasconde, però, uno scheletro mostruoso. Che, in cambio di una presunta protezione, esige dai suoi "devoti" droga, tequila, oro e, a volte, sangue. Il 25 dicembre, a Tempico, nello Stato messicano del Tamaulipas, dopo la celebrazione delle tradizionali posadas – una sorta di presepe vivente – per le strade del centro sono spuntati tre commando di trafficanti del cartello del Golfo con migliaia di pacchi per i bambini. «Siamo noi i veri Magi», dicevano in tono canzonatorio. La Chiesa, però, non è disposta a cedere di fronte alla brutalità del crimine. Come dimostrano le vite spezzate dei suoi testimoni. Vescovi, parroci, diaconi, religiosi, catechisti, in tanti non si stancano di sfidare la forza bruta dei Kalashnikov con la potenza disarmata del Vangelo. Costruendo rifugi per migranti, case per vittime, gruppi di denuncia delle scomparse, associazioni di auto aiuto. Anzi, proprio nelle zone dove lo Stato è maggiormente assente – che in America Latina sono tante – è la Chiesa a rappresentare l’unico argine fisico e morale alla narco-egemonia. Consapevoli dei pericoli, pastori e laici vanno avanti. Facendo proprio il testamento di Óscar Romero, l’arcivescovo di San Salvador assassinato il 24 marzo 1980: «Come cristiano non credo nella morte, ma nella resurrezione: se mi uccidono risusciterò nel mio popolo».